Il delitto di Ponticelli - L’ombra del dubbio: la costruzione perfetta dei “Mostri”

 
 

3 Luglio 1983: un caso di cronaca tolse il fiato a tutti. Due bambine - di sette e dieci anni - vennero seviziate, uccise e i loro corpi (legati l’uno sull’altro e trovati in un canale) carbonizzati. La docu-serie Sky Original prodotta da Sky e Groenlandia in streaming su NOW e disponibile on demand, racconta uno dei crimini più mostruosi dell’Italia del dopoguerra. Ed è anche il resoconto di un’indagine sbagliata, in cui alle due vittime se ne aggiunsero altre tre. 

Due mesi dopo il delitto vennero incarcerati e condannati all’ergastolo tre ragazzi tra i diciannove e i ventuno anni. Si tratta di Ciro Imperante, Luigi Schiavo, Giuseppe La Rocca: i tre mostri di Ponticelli. Incensurati, appartenenti a famiglie della zona e completamente estranei ai fatti. Non c’erano prove della loro colpevolezza, né del loro legame con le bambine (che, stando ai fatti, non conoscevano neppure), né del loro coinvolgimento nell’omicidio. Gli arresti avvennero poco dopo il fatto, come se fosse urgente individuare un possibile “mostro” - o più di uno - senza indagare realmente sull’accaduto. È necessario considerare (prima ancora di analizzare le modalità in cui sono state svolte le indagini) il contesto storico: ci troviamo a tre anni dal terremoto e in un periodo in cui la Camorra da rurale si trasforma in imprenditoriale. Si parla all’incirca di trecento delitti all’anno. Oltre alle coordinate temporali vanno precisate anche quelle spaziali: il fatto è avvenuto nel rione Incis di Ponticelli, un quartiere di Napoli di 45 mila abitanti. È intuitivo, allora, come sia stato “costruito” lo scenario perfetto per l’edificazione dei Mostri. Erano tre ragazzi normali, provenienti da famiglie normali, viene raccontato da una delle varie voci che si alternano. Era essenziale agire in fretta, facendo leva sulla paura del momento e incriminare persone che potessero essere trasformate nell’immaginario di potenziali diavoli. Senza prova alcuna. 

Nei confronti di Ciro, Giuseppe e Luigi (ancora oggi) non ci sono elementi tangibili che dimostrino - prima ancora della loro responsabilità - il loro rapporto con le vittime e la loro presenza sulla scena del crimine. Tutto si riduce ad una testimonianza, quella di Carmine Mastrillo, fratello maggiore di Antonella, l’amica delle due bambine che per prima aveva riferito agli inquirenti di aver visto le due salire su una Fiat 500 di colore blu, dove avrebbero incontrato il loro destino di morte. Il testimone accusa, poi ritratta, poi accusa di nuovo. Il fratello di uno dei tre indiziati conferma le sue parole, ma si insinua il sospetto che sia stato minacciato e torturato in caserma. Sospetto, poi, confermato dagli stessi volti dei ragazzi e dai segni di maltrattamenti evidenti. Ma bisogna agire rapidamente, senza soffermarsi né sulla negligenza giudiziaria, né sugli abusi perpetrati agli imputati, né sulle possibili piste non indagate che avrebbero potuto portare al colpevole. Solo dopo, infatti, si parlerà di un altro uomo - che entrambe le vittime conoscevano - che risponde a tutte le caratteristiche descritte da Antonella, con precedenti penali per violenze sessuali su minori, con l’auto (che ha provveduto a rottamare) su cui sono state viste salire le vittime. 

La docu-serie raccoglie materiali d’archivio inediti e indaga (con rigore giornalistico) un fatto di cronaca di una violenza indicibile e di una totale trascuratezza e indifferenza nei confronti delle vittime e dei loro familiari. All’inizio degli anni Ottanta, il tema della pedofilia non era conosciuto; non se ne poteva parlare, bisognava solo intimare ai propri figli di non uscire di casa, per colpa dei “mostri”. E appena i giornali hanno titolato Li hanno presi non era più essenziale soffermarsi sui dati obiettivi, sull’istruttoria segreta, sui riscontri dell’autopsia che parlavano di sadismo e di una sola mano omicida. Non conta nulla quando c’è da risolvere - in modo concitato - una questione che potrebbe far emergere le inefficienze delle investigazioni, i maltrattamenti della polizia (a uno dei tre ragazzi, in caserma, è stato rotto un timpano con una penna), le responsabilità della stampa, le dichiarazioni mai verificate. Ci ha provato anche il giudice antimafia Ferdinando Imposimato a demolire l’iconografia demoniaca, a trovare risposta nella giustizia. Ancora oggi, però, non è stato messo un punto fermo. I tre ragazzi sono diventati tre uomini e hanno provato a rifarsi una vita, pur convivendo ancora con quel marchio di “mostri”. Non sono state tutelate le vittime, e ne sono state persino create altre.

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