In Her Hands: le due anime dell’Afghanistan

 
 

Sono passati più di due anni dalla caduta di Kabul per mano dei talebani. Nonostante l'enorme risonanza mediatica che ebbe all'epoca, ormai si parla a mala pena della nuova situazione in cui si trova l'Afghanistan. Eppure quel 15 agosto 2021 ha cambiato la vita di tantissime persone, l'esistenza intera di una generazione, cresciuta negli anni 2000, che non riesce a riconoscersi in quella mentalità fatta di soprusi e violenza.

In her hands (Netflix) è la storia di Zarifa Ghafari, prima sindaca afgana a soli 26 anni. Il documentario ricostruisce la sua vita e la sua carriera politica dal 2019 fino all'esilio in Germania nel 2021. Quotidianamente, Zarifa deve scontrarsi con la mentalità maschilista del suo paese, sebbene il suo lavoro venga poi riconosciuto sia a livello nazionale che internazionale. Gli scontri non mancano nemmeno in famiglia col padre, ex membro dell'esercito, che vorrebbe per la figlia una vita più vicina alle tradizioni. Come facilmente intuibile, i suoi nemici numero uno sono i talebani. Zafira sa di essere continuamente nel loro mirino e ne sono una prova le continue minacce di morte che ricevere. La sua vita è perennemente sotto scorta, passando da un appartamento all'altro, protetta dal suo autista e guardia del corpo Massaoum.

La regia del documentario è affidata alla regista afgana Tamana Ayazi e a Marcel Mettelsiefen, candidato agli Oscar negl 2016 con Watani: My Homeland, che spesso ha raccontano la realtà del medio-oriente nelle sue opere. Ovviamente ad attrarre l'attenzione è il nome delle due produttrici Hilary e Chelsea Clinton, la prima sostenitrice dell'intervento delle truppe USA in Afghanistan.

Tuttavia la presenza di questo cognome ingombrante, non sembra intaccare o polarizzare troppo la narrazione verso un'ovazione alla politica americana. Anzi, è interessante notare come il documentario mostri sia la vita di Zafira che quella di Massaoum che rappresentano le due anime diverse del paese: quella di chi va e di chi è costretto a restare.

All'inizio del film, Massaoum è totalmente devoto a Zafira e in lei vede il riscatto di un'intera nazione. Tuttavia, le loro strade si dividono quando lei viene chiamata a lavorare per il Governo, che non accetta guardie del corpo civili. Massaoum vive questo momento come un tradimento, allontanandosi per sempre da Zafira.  Grazie a lui riusciamo a capire appieno quello che devono attraversare i cittadini afgani ogni giorno, tra disoccupazione e totale incertezza verso il futuro; quando invece anni di occupazione americana e guerra li avevano proiettati verso un futuro diverso, vicino a uno stile di vita più libero. Per Massaoum, come per tanti afgani, i talebani non sono figure lontane o astratte, sono i propri fratelli, i proprio cugini e amici. Persone a loro vicine che hanno preso una direzione differente. Sono gli stessi che ora gli sorridono e sanno benissimo del suo mestiere precedente, che ora deve tenere nascosto e rinnegare per sopravvivere.

Durante la visione siamo portati a empatizzare per entrambi i personaggi, che affrontano con le loro possibilità un cambiamento epocale che probabilmente nessuno di loro si aspettava. Zafira è la voce delle donne e del popolo afgano, che decide di proteggere sempre rischiando ogni giorno la vita. Ma non è solo questo, perché davanti a noi abbiamo una ragazza che vive in bilico tra due poli cercando di trovare un suo equilibrio. Quello tra prendersi cura della sua famiglia e reclamare la sua indipendenza, tra dovere e amicizia, tra amore e carriera politica, tra restare nel suo paese e morire o aiutarlo da lontano. La vera riuscita del documentario è raccontarci il conflitto interiore dei personaggi e, attraverso questo, quello di un'intera nazione. In her hands riesce a riaccendere le luci su una guerra che abbiamo dimenticato, su un popolo che continua a lottare affinché Zafira non sia la sua ultima sindaca.

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