The Ghost of Richard Harris: come un uragano

 
 

Quando Orazio esprime stima per il defunto re, Amleto gli risponde che bisogna guardare all'uomo nella sua interezza, nel bene e nel male. Ecco, leggendo queste parole Jared Harris saluta il celebre genitore alla fine del documentario The Ghost of Richard Harris di Adrian Sibley. L'esperto regista britannico costruisce un viaggio al tempo stesso privato e pubblico nella vita di uno degli interpreti più straordinari della sua generazione, impegnandosi ad esplorarne il carattere complesso e, a volte, contraddittorio. E ci riesce con risultati generalmente lodevoli, compresi in un minutaggio tutto sommato ragionevole.

L'ambizione dell'operazione è evidente, a tratti ammirevole, a tratti sospetta, ma complessivamente ricca di suggestioni. Da subito a farla da padrona è la voce dello stesso Harris, a quanto pare in passato generoso di interviste, tanto da permettere di ricostruirne la personalità ancora prima della storia tramite le sue stesse parole. «Saluti, sono Richard Harris», sentiamo. «Sto arrivando in città». E poi la minaccia si concretizza: «Vi dirò alcune menzogne su di me». Si tratta dell'annuncio radiofonico di una sua fortunatissima tournée. Il lascito culturale forse più impressionante di quello che man mano si rivela essere stato un uomo di spettacolo a tutto tondo.

Certo anche il pubblico europeo ne conosce il valore attoriale, grazie in particolare alla sua presenza in Deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni al fianco di Monica Vitti. Ma quel che è meno noto è l'incredibile parabola di Dickie Harris, com'era conosciuto in gioventù a Kilkee, rinomata località costiera dell'Irlanda sud-occidentale, dove si era fatto notare come promettente giocatore di rugby. All'epoca era un ragazzone ben fatto, veniamo a sapere, dal carattere iroso e vanesio. In seguito scopriamo che a causa di un principio di tubercolosi fu costretto ad abbandonare la carriera sportiva. Ecco un primo trauma, che diventa semina drammaturgica e che produrrà frutti narrativi proprio nella lettura shakespeariana con cui apriamo e chiudiamo questo pezzo.

Qui il figlio Jared - ai più noto per le serie tv The Terror e Chernobyl e per il ruolo del professor Moriarty nel film Sherlock Holmes - Gioco di ombre (2011) – infine si sgancia dalle memorie che condivide coi fratelli Damien – regista non particolarmente rilevante - e Jamie – anch'egli attore, ma molto meno affermato – per esplorare le parole paterne ritrovate in un vecchio quaderno: «Tutto ha avuto inizio a Overdale». La casa in cui Richard aveva trascorso quei giovanili giorni di infermità, “la malattia dei poveri”, di nascosto dalla buona società. La stanza in cui da aspirante atleta era passato a leggere i classici della letteratura e del teatro, finendo per aspirare alla regia. Ma, dopo un'ossessiva ricerca del giusto percorso di studi, invece che dirigere gli attori è diventato attore egli stesso.

Dopo i rifiuti delle migliori accademie, almeno un decennio di gavetta con primi ruoli importanti in produzioni teatrali del West End, finalmente approda alla settima arte, in primis politica. Free Cinema si chiamava quello inglese, indipendente e socialmente impegnato. Un movimento fondato da figure quali Lindsay Anderson, Tony Richardson, Karel Reisz. Intorno a questi e altri registi un'intera generazione si fece trovare pronta per pensare nuove forme di sguardo sul mondo, più equo e verosimile, e quindi di racconto della vita degli ultimi. Film freschi e potenti come Io sono un campione (1963) di Anderson, con Harris protagonista, caratterizzano questa appassionante stagione. Il personaggio che ivi interpreta Richard – ormai da qualche anno riappropriatosi dell'appellativo di battesimo ad uso di nome d'arte, come non gli appartenesse, quasi fosse un ripiego rispetto alla vera esistenza che la tubercolosi gli aveva tolto - è nervoso, di brandoniana memoria. In effetti l'attore irlandese si fece portavoce di un giovanilismo schizofrenico, fatto di battute sibilate fra i denti oppure urlate, e gestualità altalenante fra l'impercettibile e il violento.

Da qui la sua reputazione di eterno ribelle, unita ai problemi di alcol e droghe che lo accompagneranno fino alla fine degli anni settanta, quando ormai nessun produttore importante se la sentirà più di rischiare. L'ultimo successo era stato Camelot (1968) di Joshua Logan, al fianco dell'amica Vanessa Redgrave, che gli era valso il Golden Globe per Miglior attore in un film commedia o musicale. L'ultimo film decente, forse, Uomo bianco, va' col tuo dio! (1971) di Richard C. Sarafian. Harris ritroverà il piacere della recitazione solamente con Il campo (1990) di Jim Sheridan, che gli varrà la candidatura all'Oscar, ma per il quale non sarà la prima scelta. Il documentario ci mostra tutto questo e molto altro con arguzia e creatività, senza mai avanzare giudizi o tirare le somme, ma illuminando gli angoli bui di una non troppo metaforica stanza. Chi era Richard Harris? E come mai i sui figli, vent'anni dopo la scomparsa, ancora lo sognano? Ad esempio, Jared ricorda che il giorno dopo la morte del padre su Londra si abbatté una tempesta che sembrava quasi un uragano, come se lo spirito dell'attore volesse ancora farsi sentire. Insomma non è un caso se, nella citata scena, Amleto prosegua affermando che non ci sarà mai nessuno come suo padre.

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