Alias: la spy story cult ora su Disney+

 

Serie capitale d’inizio millennio, Alias è andata in onda per 5 stagioni, dal 2001 al 2006 (dal 2003 al 2006 in Italia). Approdata su Disney+, si offre ora a un nuovo pubblico e a un nuovo sguardo critico. 

Mescolando la spy story con la fantascienza, Alias s’inserisce in un filone seriale avviato alla fine del decennio precedente da prodotti quali Xena: Principessa guerriera (ma soprattutto Buffy l’Ammazzavampiri e, successivamente, Dark Angel) che avevano come protagoniste figure femminili forti, autonome e determinate. In questo caso la spia della CIA Sydney Bristow, interpretata da una straordinaria Jennifer Garner che per il ruolo ha vinto il Golden Globe come miglior attrice in una serie drammatica nel 2002. A giustificare il premio basterebbe la sua performance nel tour de force dell’episodio pilota, culminante nella reazione di Sidney all’omicidio del fidanzato, ma la poliedricità della Garner è a tutti gli effetti un fattore fondamentale della serie, nella quale – a causa delle continue missioni segrete e degli incarichi sotto copertura – la protagonista si trova costantemente a variare il proprio stile di recitazione per adattarsi alle varie situazioni in cui il suo personaggio è calato, modificando movenze, posture, accenti e inflessioni della voce e talvolta parlando in lingue diverse.

Basti pensare che nel corso della quinta stagione Garner deve addirittura impersonare sia la protagonista sia un suo clone malvagio. La molteplicità dei personaggi che di volta in volta Sidney (e non solo Garner, quindi) deve interpretare è indubbiamente uno degli elementi di interesse visivo della serie: più volte nominati agli Emmy e vincitori di alcuni premi Guild, truccatori (coordinati da Micheal Reitz) e costumisti (Laura Goldsmith in particolare) danno sfoggio di intelligente inventiva finalizzata ad una studiatissima caratterizzazione del personaggio che riesce a trasformare vestiti e parrucche, a seconda delle necessità, in strumenti di estremizzata mimetizzazione o in raffinate armi di seduzione. 

Se una gran parte dell’appeal che Alias esercita sullo spettatore è riconducibile al suo impianto visivo (comprendente gli effetti speciali, la fotografia e naturalmente la regia), non è affatto secondario l’aspetto narrativo. Il sopra nominato mash-up dei generi costituisce un tassello di notevole interesse per gli appassionati e crea di per sé una implicita necessità di continua rielaborazione e variazione del canone: ogni episodio è prevalentemente dedicato a una missione che Sidney deve portare a termine ma la struttura della serie è tale che le conclusioni o le conseguenze di una missione sconfinano quasi sempre nell’episodio successivo.

Da vero prodotto post-moderno, Alias è tanto una serie antologica quanto una serie serializzata ed eleva quasi a raison d’etre lo strumento del cliffhanger, conferendovi in alcuni casi un’aura di essenzialità formale (1x14), in altri una patina di ironica e poetica essenzialità (3x09). Memorabili restano poi quasi tutti i cliffhanger di fine stagione, in particolare il primo con l’incredibile rivelazione dell’identità dell’Uomo, il secondo con un inaspettato slittamento temporale e il quarto con un incidente a dir poco scioccante.

Attraverso la serializzazione, J. J. Abrams (già autore di Felicity e assunto nell’Olimpo degli autori televisivi con Lost) conferisce un approfondimento dinamico al tema cardine della sua serie: l’identità. Dal camouflage alla necessità di fingersi persone diverse, dal doppio gioco che conducono moltissimi personaggi (Sydney in primis) al tema del doppio incarnato dai cloni, tutto ruota intorno alla ricerca di un’impossibile definizione dell’identità dell’uomo (e della donna) nel mondo contemporaneo.

Perfino i rispecchiamenti nelle profezie dell’homo universalis Milo Rambaldi (una sorta di scienziato vissuto nel Rinascimento – il cognome non è casuale: vedi alla voce E.T. – per il quale il capo/nemico di Sydney ha maturato una vera ossessione e che costituisce uno degli elementi più interessanti della serie) arrivano a coniugare questa ricerca identitaria con l’arte, la scienza e addirittura la follia, combinando la tecnologia con il mito, la sete di conoscenza con il delirio di onnipotenza.

Nell’impossibilità di riassumere qui una trama veramente complessa che si snoda senza cali di tensione ritmica o narrativa, ci permettiamo di segnalare – oltre al fatto che a questa serie sono debitori prodotti come Homelander The Americans – un altro paio di aspetti notevoli: le numerose guest-star (da Rutger Hauer a Quentin Tarantino, da Isabella Rossellini a Lena Olin, da Faye Dunaway a Ethan Hawke senza dimenticare Christian Slater) e la colonna sonora che, passando dagli AC/DC a Sarah McLachlan e da Sheryl Crow a Joni Mitchell, riesce a sottolineare altrettanto efficacemente i momenti d’azione e quelli drammatici o introspettivi.

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