Baby J: l’auto-dissing di John Mulaney

 
 

Il nuovo spettacolo dello stand-up comedian statunitense John Mulaney non è un semplice ritorno alle scene, ma una vera e propria rinascita. L’artista, terminato il soggiorno in una struttura riabilitativa per tossicodipendenti, è salito sul palco della Boston Symphony Hall per raccontare la sua esperienza. Al centro del monologo, l’intervento degli amici e colleghi di una vita, mentre nessun riferimento al celeberrimo bulldog francese Petunia (deceduto poche settimane fa) o al divorzio da Annamarie Tendler – il comico aveva basato in passato molte sue battute sul rapporto con l’ormai ex-moglie. Nonostante l’umorismo di Mulaney e il suo modo di presenziare sul palco ricalchino la figura caotica che il pubblicato ha imparato ad amare, con Baby J (Netflix) ne scopriamo anche il lato più introspettivo e, per certi aspetti, limitatamente grottesco.

Ancora più che in passato – pensando ai precedenti The Comeback Kid (2015) e Kid Gorgeous (2018) – il principale oggetto dell’ironia di Mulaney è sé stesso. Sebbene il comico avesse già accennato in passato alla sua tossicodipendenza (che si credeva risolta), l’oggetto dello scherno, per tutta la durata dello show, è il John Mulaney che, alla fine del 2020, si è presentato alla clinica riabilitativa con le tasche del cappotto imbottite di cocaina, Xanax e dollari in contanti. Il comico è naturalmente chiassoso e saltella da un lato all’altro del palcoscenico della Boston Symphony Hall… è impossibile non notarne, però, il drastico cambiamento nel volto e nel ritmo della voce: tra l’amareggiato e il sereno, Mulaney porta avanti, per ottanta minuti, un pesante dissing contro sé stesso.

Mi permetto, all’interno dello spazio di Streamofilia, una piccola digressione da fan. John Mulaney è stato il comico che mi ha fatto appassionare al mondo dello stand-up, all’universo statunitense e britannico ancora prima che al corrispettivo italiano. È una figura di cui si sono sempre conosciute le problematiche – ma che non è mai stato problematizzato – e la cui reputazione è rimasta, nonostante tutto, pressoché inalterata. Vedere questo spettacolo è stato personalmente complesso, come per altri comici (Daniel Sloss e Taylor Tomlinson, i cui show sono sempre visibili sulla piattaforma Netflix) che fanno delle loro disfatte psicofisiche e affettive il focus dello show. Saper ridere dei propri problemi è certamente una grande qualità, fondare il proprio mestiere su questo è sensazionale, ma comunque è difficile non provare una forte connessione empatica. Questa postilla, forse buonista, non è una critica all’umorismo cinico e sarcastico riversato sul proprio io – in inglese si direbbe self-deprecating humor – ma un appunto per chi, da Baby J, si aspetta il classico John Mulaney con battute alla “mio padre mi portava al McDonald e poi ordinava, solo per lui, un caffè nero” … c’è molto di più.

Baby J è un comedy special fatto forse più per Mulaney stesso che per il pubblico. È un monologo in cui esorcizzare i propri demoni attraverso la battuta, come tanti in questo settore fanno. Ciò che lo rende interessante – oltre che la mia personale passione per il comico – è il ritmo con cui porta avanti il discorso, la narrazione aneddotica e, soprattutto, il suo aver stretto nel corso degli anni uno forte legame di conoscenza e affiliazione con il pubblico. Se vedete Baby J, non potete non premere immediatamente play per scoprire gli altri suoi special.

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