Beba: autoritratto di identità frammentate

 
 

Quella di Rebeca Huntt non è una storia di riscatto, né di redenzione. È un quadro crudo dell’imperfettibilità umana, condotto attraverso una consapevolezza innegabile verso la vita e il senso dello stare al mondo. Beba conduce lo spettatore all’interno di un viaggio intimo, ricco di folli suggestioni visive al confine tra dimensione onirica e spirituale. Ogni singolo fotogramma è un complemento d’arredo che va a costruire quella che è possibile considerare la camera di una ragazza adolescente e di una giovane adulta: come la propria stanza è ricca di oggetti che hanno segnato le vicende personali, questo autoritratto propone intere sequenze di foto, evocazione di utensili, luoghi e aggettivi di grande impatto per la definizione identitaria della protagonista. Sono i suoi occhi a narrare, la sua voce la aiuta ad auto-esaminarsi e a descrivere chi la circonda, in un percorso estremamente introspettivo e cosciente verso quella che è la vita di un’afro-latina negli Stati Uniti. Ha il potere totale sulla narrazione dei fatti e sulla determinazione della veridicità o falsità di essi, divenendo il dio indiscusso della sua stessa esistenza.

Il racconto è ancestrale, la colpa del genos si tramanda all’interno della genealogia, in una condizione di infermità mentale dalla quale è impossibile fuggire. Attraverso il tropo della donna guerriera, Beba cerca di sopravvivere ad un quotidiano insopportabile, dove nessuna esperienza familiare risulta piacevole. Divide il narrato in capitoli, a metà tra un’autobiografia cartacea e un diario digitale. Illustra nella prima sezione il ritratto della sua famiglia disfunzionale. Definisce, universalizzandola, la presenza paterna attraverso un elenco di attrezzi agricoli, dipingendo con pochi elementi un vissuto in fuga dalla Repubblica Dominicana, alla ricerca di un riscatto negli USA, lontano dal regime dittatoriale di Trujillo. Il profilo è quello di un uomo coraggioso e ambizioso, assertivo nell’annullamento di sé all’interno della realtà metropolitana.

Il legame con la sorella è tratteggiato come violento, mentre affiora un forte senso di incomunicabilità all’interno delle narrazioni che includono il fratello, un rapporto sanato in modo intermittente attraverso la musica. Ulteriormente problematica la relazione con la madre, donna venezuelana scappata da una presenza materna schizofrenica. La personalità delineata è quella di un modello genitoriale debole, impossibilitato a ritagliarsi un ruolo preciso all’interno del nucleo domestico. Nelle interviste legate ai familiari, emerge tutta la disillusione della ragazza verso la possibilità di una mediazione o una comprensione reciproca. L’autrice si presenta come un’anima dal forte senso identitario, mossa fin dall’infanzia verso la denuncia sociale e un amore incondizionato per il Venezuela, unica vera casa che la distruzione umana le ha sottratto.

La vita di Rebeca scorre tra trasferimenti costanti, spiritualità e prime esperienze amorose, attraversando l’adolescenza ed arrivando alla soglia del college. La permanenza nell’Hudson Valley, i farmaci, la scoperta del termine “afro latina”, la portano verso nuovi interrogativi sulle sue origini. Si va piano piano a mappare la condizione della comunità nera all’interno del privilegiato ambiente caucasico del Bard College, tra riflessioni sul codice d’abbigliamento e il semestre in Ghana. Quella dell’eroina diventa un’identità sospesa, troppo bianca per l’Africa e troppo nera per l’America, riuscendo a trovare piena comunione solo attraverso l’arte e il paesaggio naturale, nel quale si riconosce pienamente.

L'incomprensibilità familiare si ripresenta ancora più forte nel mezzo dei discorsi con i suoi colleghi bianchi, impossibilitati ad affrontare con criterio il discorso riguardante la violenza sulle Black Lives, in un’inconciliabile prospettiva che si traduce in disumanizzazione nello sguardo di Beba, ormai restia a qualsiasi tipo di integrazione all’interno della società statunitense. Trova rifugio temporaneo nella doppia natura geografica di Michael, ragazzo indiano e portoricano del Bronx, ma che nuovamente porta al ripresentarsi dello spettro dell’infermità mentale, con quel bipolarismo che lo porta al suicidio.

Quella del docu-film è un’esistenza raccontata senza filtri, una nudità spirituale fatta di immagini autentiche, di considerazioni crudeli e prive di falso pudore sociale, dove la musica, la danza e la natura risultano l’unica consolazione in una società globalizzata che ha perso tutti gli strumenti della comprensione umana. Beba non si autoelogia mai, è libera dalle costruzioni sociali, dalle metanarrazioni, dai miti del mondo, è materia in uno spazio che abita senza vittimismo in un racconto tra malattia e identità nera.

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