El Conde: palinsesto e sintesi del vampiro cinematografico

 
 

Ci sono figure del nostro immaginario che si rigenerano in continuazione, adattandosi al mutare della società e delle sue sensibilità. Archetipi e miti che non smetteranno mai di essere rilevanti, metafore immortali che di generazione in generazione intercettano paure e desideri sempre nuovi e sempre uguali.

Ed è forse alla più longeva e pervasiva di queste figure che Pablo Larraín ha dedicato il suo ultimo lungometraggio, disponibile su Netflix. Partiamo dal titolo, che nei quattro film precedenti di Larraín ha sempre coinciso con il protagonista (i tre biopic Neruda, Jackie e Spencer, e il film di finzione Ema). Ma se è vero che qui il protagonista è Augusto Pinochet, la decisione di non ricorrere al cognome o al nome nel titolo suggerisce che più che la figura storica di Pinochet, il vero protagonista del film sia in realtà il Conte, ossia il vampiro. E in effetti, seppure i riferimenti alla storia cilena siano importanti, è la natura vampiresca e parassitaria di Pinochet a essere messa in primo piano.

Del resto il vampiro è onnipresente nell’immaginario occidentale (e non solo) da almeno due secoli ed è particolarmente collegato al medium cinematografico. Infatti il Conte per eccellenza, Dracula di Bram Stoker, è comparso più o meno contemporaneamente alla nascita del cinema e sul legame tra la sua figura e la settima arte Francis Ford Coppola ha basato quella sinfonia visiva che è Dracula di Bram Stoker (1992). Il film di Coppola ha dato poi il via a una svolta nell’immaginario del vampiro che vira verso una visione romantica (nel senso letterario del termine), che vede nel parassita emofago un eroe byroniano, melanconico e tormentato. Questi nuovi vampiri da film d’autore ritornano e si espandono in pellicole come Intervista col vampiro (Neil Jordan, 1994) e Solo gli amanti sopravvivono (Jim Jarmusch, 2013).

Anche in El Conde vengono riprese alcune caratteristiche di questo tipo di rappresentazione. Il vampiro Pinochet, risoluto a lasciarsi morire smettendo di nutrirsi di sangue umano, ci viene presentato come un personaggio melanconico e indolente, non dissimile dai protagonisti del film di Jarmush, sopraffatti dall’ennui dopo secoli di esistenza nell’ombra. E l’infatuazione provata nei confronti della giovane suora Carmencita, giunta con lo scopo di esorcizzare il dittatore, ricalca il topos del vampiro innamorato e potenzialmente redento che Gary Oldman ha magistralmente interpretato nel film di Coppola.

Tuttavia a questi aspetti, allo stesso tempo omaggio e parodia della tradizione cinematografica precedente, si aggiunge la ripresa della metafora forse più potente del vampiro, quella che lo vede come rappresentazione del capitalismo finanziario. È su questo aspetto che Larraín insiste con più decisione e su cui ruota tutto il film. Il motivo che spinge Pinochet a sospendere il suo nutrimento è il fatto che il suo paese lo ricordi come ladro, più che come assassino sanguinario. I suoi figli vanno a trovare il padre con il solo intento di spartirsi l’eredità e Carmencita, più contabile che suora, intervista i membri della famiglia per ricostruire tutti i movimenti di capitale che i Pinochet hanno fatto negli anni per nascondere i soldi rubati al Cile in conti offshore.

È qui che risiede la dimensione politica di El Conde, che si configura non tanto come un film su un preciso contesto storico e geografico, ma da esso parte per una riflessione più ampia su un sistema oppressivo che travalica i confini di tempo e di spazio. Così il Conte, deciso a sopprimere nel sangue qualsiasi rivoluzione dal 1789 in poi, si configura come palinsesto e sintesi del vampiro cinematografico, rappresentazione assoluta del male che permane in una perpetua rigenerazione e della natura parassitaria di un potere repressivo e reazionario. 

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