Lazarus: il ritorno dei fantasmi di Harlan Coben
Ci sono serie che ti afferrano per la gola, e altre che sembrano prometterti profondità ma restano in superficie. Lazarus, la nuova miniserie britannica di Harlan Coben e Danny Brocklehurst per Prime Video, appartiene purtroppo a questa seconda categoria. Sei episodi che vorrebbero scavare nei traumi familiari, nella memoria e nella follia, ma che finiscono spesso per restare prigionieri di un meccanismo troppo studiato e poco autentico.
Joel “Laz” Lazarus (Sam Claflin) è uno psichiatra forense che torna nella casa del padre dopo il suo presunto suicidio. Dietro quella morte si nasconde una lunga scia di segreti, a partire dall’omicidio della sorella gemella avvenuto venticinque anni prima. Un mistero familiare che dovrebbe trascinare lo spettatore in un vortice di paranoia e dolore, ma che finisce per scivolare in una serie di allucinazioni e colpi di scena fin troppo prevedibili.
La confezione è impeccabile: fotografia elegante, ambienti curati, un tono costantemente cupo e riflessivo. C’è un’attenzione estetica che colpisce, ma dietro l’immagine si avverte il vuoto di un racconto che non riesce a emozionare davvero. Tutto sembra costruito per evocare un senso di ambiguità e disagio, ma la scrittura non riesce mai a farlo sentire autentico. Le visioni del protagonista appaiono più come esercizi di stile che come frammenti di una mente in crisi.
Sam Claflin è intenso e misurato, ma anche lui è imbrigliato da una sceneggiatura che gli lascia poco spazio per sorprendere. Bill Nighy, pur con la sua presenza magnetica, è ridotto a una figura simbolica che appare e scompare senza mai incidere davvero. I dialoghi sono spesso didascalici, le rivelazioni finali mancano di potenza e lasciano l’amaro in bocca: tutto ruota intorno a un grande dolore familiare, ma senza la complessità emotiva che quel tema meriterebbe.
Coben, qui senza la base di un romanzo da adattare, sembra voler costruire una storia “più adulta”, ma il risultato è un thriller travestito da dramma psicologico, che accumula simboli e misteri senza mai trovare un centro. Il ritmo è irregolare, e dietro la patina del mistero si intravede una certa superficialità nel modo in cui vengono trattati i temi della memoria, della colpa e della malattia mentale.
Guardando Lazarus, ho avuto spesso la sensazione di trovarmi davanti a una serie che vuole sembrare profonda, ma che in realtà teme di esserlo davvero. Ogni volta che accenna un pensiero interessante, si rifugia nel cliché del colpo di scena o nel solito trauma irrisolto. È come se la serie volesse dirci molto, ma non avesse davvero qualcosa da dire.
Non è un fallimento totale: qualche scena funziona, alcune intuizioni visive restano impresse, e Claflin riesce a dare dignità a un personaggio altrimenti scritto in maniera piatta. Ma nel complesso Lazarus lascia l’impressione di un’occasione mancata, un racconto che pretende di scavare nell’animo umano senza sporcarsi mai le mani.
Alla fine, resta più la sensazione di artificio che di mistero. Lazarus non inquieta, non sorprende, non commuove: semplicemente scorre, elegante ma vuoto, come un riflesso nello specchio. E quando arriva l’ultima puntata, l’unico vero mistero è capire perché una serie così ossessionata dal dolore riesca a trasmettere così poca anima.