L’eredità di Matt Groening oggi: I Simpson, Futurama, Disincanto

 
 

Come se fossero delle stelle che si allineano per un rarissimo momento in tutta la storia dell’universo, quest’anno, per la prima volta in assoluto, è possibile assistere all’uscita, a poco tempo di distanza l’una dall’altra, di una nuova stagione di tutte e tre le serie storiche create da Matt Groening: I Simpson, Futurama e Disincanto. Una convivenza pacifica (anche se non del tutto omogenea) che rende questo momento cruciale per quella che in questa sede potremmo interpellare come una vera e propria eredità.

La condizione in cui i lavori di Matt Groening sono arrivati ai giorni nostri ci mostra alla perfezione alcune dinamiche indicative per quanto riguarda lo scenario dell’industria audiovisiva contemporanea e la sua relazione con lo spettatore. All’attivo ci sono: una serie che non si è mai fermata dal 1989 (I Simpson, giunti alla trentaquattresima stagione in USA e alla trentatreesima in Italia), una serie che è stata ripresa a dieci anni dalla sua conclusione (Futurama, rinnovata all’ottava stagione, attualmente in onda su Disney+, e già riconfermata per una nona stagione) e una totalmente nuova ormai giunta a conclusione (Disincanto, in chiusura con la quinta stagione questo settembre su Netflix).

Nella percezione comune c’è la classica stortura percettiva del sequel/reboot che nessuno veramente vuole (pur non perdendosene nessuno) e della novità a cui nessuno dà possibilità. Si pensi solo alla situazione del boxoffice cinematografico degli ultimi anni che vede ai primi posti delle sue classifiche solo film “derivati” (sequel, remake, adattamenti) e molto raramente opere del tutto “originali”.

Vorremmo qualcosa di nuovo eppure quando arriva non ci basta, non è all’altezza di ciò che c’è già stato. Disincanto sembra un po' aver pagato questo prezzo, quello di non assomigliare abbastanza a I Simpson, quello di aver lasciato credere, nel design e nella “firma”, che ne sarebbe stato un continuo. Invece, pur avendo completato una triade in cui alla “critica al presente” e alla “critica al futuro” si è aggiunta la “critica al passato” (sulla carta inevitabilmente meno urgente), Matt Groening ha pensato questo suo ultimo lavoro in modo tutt’altro che in linea con le sue tendenze, rinunciando alla struttura da “serie serializzata” e affidandosi a modelli narrativi più recenti, sia orizzontali che verticali, confrontandosi con esigenze diverse, cliffhanger, plot twist e forse – per usare una provocazione Morettiana – qualche momento “what the fuck?!”.

È indubbio che Groening si sia messo in discussione, abbia cercato un nuovo terreno, delle nuove regole, sia andato alla ricerca di qualcosa di nuovo e che forse è più antico di quanto si creda, un po' come la Principessa Tiabeanie che scopre stagione dopo stagione sue origini lontane e malefiche, che in parte la sottomettono, la terrorizzano, ma da cui può smarcarsi (che ci sia una sottotrama anti-Netflix e anti-algoritmo non del tutto inusuale per i prodotti di quella piattaforma?).

D'altronde non c’era nessun bisogno di creare uno spazio uguale ai precedenti dato che questi esistono già e sono tuttora in vita. Ed è proprio lì, nei prolungamenti delle serie storiche (I Simpson e Futurama) – spesso bistrattate e accusate di essere stiracchiate e senza idee – che l’eredità di Matt Groening continua a vivere malgrado tutto, ribadendo un senso di autoriflessività del tutto figlio dei tempi.

Già il primo episodio della nuova stagione di Futurama (attualmente in corso su Disney+) si prende gioco dei reboot (quello della storica serie Tutti i miei circuiti), del bingewatching (l’obiettivo di Fry di guardarsi tutti i programmi televisivi esistenti assecondato da un macchinario che gli perfora il cervello bloccandolo di fronte a un incessante flusso di immagini), dell’industria audiovisiva (gli sceneggiatori, proprio in periodo di scioperi, sostituiti da Bender al suono di “cosa ci vorrà per fare il loro lavoro? Lo sanno fare tutti!”), portando avanti l’idea di trascinare all’infinito una serie che viene riesumata letteralmente dall’inferno (dove Calculon, star di Tutti i miei circuiti, è confinato) e ripresa, allungata, prodotta in velocità, per darla in pasto a uno spettatore mai sazio che addirittura guarda gli ultimi episodi al doppio della velocità. La morale, dice Fry in conclusione al primo episodio, è non prolungare una serie se non sei in grado di assicurare un livello qualitativo pari alle stagioni precedenti. E lo sanno benissimo loro, così come lo sappiamo benissimo anche noi, che anche per questa serie non è andata così.

Con una buona dose di autocritica, chiedendo alla satira di essere prima attuale che originale, anche con I Simpson Matt Groening tuttora sembra continuare un percorso più coerente di quanto si dica, rendendola, malgrado tutto, una perfetta macchina autonoma che mastica e rigurgita quello che succede oggi nel mondo.

Procedendo con le ricorrenti parodie (in particolare, nell’ultima stagione, quella di Fargo dell’episodio Un Flanders serio), frecciatine alla cultura americana (“ora puoi essere un repubblicano perché sei ricco e snob e non più perché sei un vecchio che non sa come si cambia canale”) e sull’industria culturale contemporanea (“sono un supereroe contemporaneo: so volare, ma non riesco a superare il mio trauma”) I Simpson ribadisce in continuazione la sua natura automatica, ma del tutto a fuoco. È un’entità che si auto-alimenta, un perfetto spazio di riflessione sui tempi, fatto delle stesse immagini che critica. Potremmo quasi azzardare una definizione audace: oggi I Simpson stanno all’industria culturale americana e occidentale come Blob stava (e sta tuttora) all’industria culturale italiana.

Per questo stesso motivo non c’è nulla di morto, se non tutto. Basterebbe solo capire che quella di Groening è una formula calibrata e, per quanto automatica, è spesso in grado di cogliere sfumature sottili, perché è un’intelligenza raffinata. Anche se lo è una volta su dieci, quella volta non è buttata.

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