Winter Boy: il lutto si addice a Lucas

 
 

Una croce bianca con dei fiori sull’asfalto. Titoli di testa. È nel silenzio, avvolto da una fredda patina invernale, che intravediamo Lucas (Paul Kircher) dai vetri di un’auto parcheggiata. Stacco. Siamo in un interno e ora il ragazzo si rivolge alla telecamera, come in una seduta psicoterapeutica, e da narratore onnisciente racconta. 

Lucas è un ragazzo di 17 anni e vive in collegio, nella placidità di una città della Savoia francese. Nell’apparente quiete in cui sembra adattarsi, la malinconia del suo sguardo, seppur velata, non sfugge agli insistenti primi piani. Si percepisce infatti un disagio viscerale, che a tratti tenta di emergere ma che non trova motivo per esplodere. Tutto cambia quando questa imperturbabilità viene spezzata dall’inaspettata perdita del padre, in un incidente stradale. Ora un motivo c’è e, in un’eruzione incontrollata, Lucas esplode e non riesce ad essere arginato, se non assecondandone un’estinzione autonoma. 

Per aiutarlo a distrarsi, la madre (Juliette Binoche), lo lascia raggiungere il fratello maggiore Quentin (Vincent Lacoste) nella sua Bohème parigina, regalandogli la possibilità di sognare e di perdersi. In quella settimana Lucas, in preda a una genuina curiosità, ma anche a una confusione e un’instancabile ricerca di evasione, si lascerà andare alla scoperta di sé stesso. Si innamorerà (o almeno crederà di farlo), si annoierà, e avrà tanto freddo. Ricercherà nella carne una risposta a quella mancanza fisica così sofferta e incolmabile (“non mi piace la mia mente in questo momento. Preferirei che il mio corpo occupasse tutto lo spazio, che fosse tutto leggero come una piuma”), da cui verrà sopraffatto e sarà costretto a tornare a casa. Qui, il richiamo costante di chi c’era e non c’è più e l’impossibilità di sfuggirne -sia anche solo fisicamente- diventano insostenibili e sarà soltanto la primavera a restituirgli un senso di rinascita e riappropriazione di sé.

Winter Boy (MUBI, 2023) è un film che indaga il lutto come stato esistenziale, che pervade e attanaglia, focalizzandosi sulla voragine che esso genera e sui diversi modi in cui i personaggi, in primis il protagonista, sono chiamati a gestirlo. Non ci viene dato molto elemento di contesto. Le specificità della figura paterna - i suoi dettagli di individuo e l’insieme delle sue relazioni - non vengono particolarmente esplorate. È come se il particolare fosse relativamente rilevante di fronte a una situazione umana universalmente condivisa. Per capire il dolore diventa innecessaria una retrospettiva sulle dinamiche familiari antecedenti, perché il soggetto analizzato è la mancanza stessa. Tuttavia, ciò non accade a discapito della storia dei singoli e loro dolore, che è assolutamente specifico seppur universale. 

Honoré riesce quindi con immensa sensibilità a dipingere non solo il processo di accettazione del lutto, ma anche del sé adolescente, inadeguato e incompiuto, in tutte le insicurezze, curiosità e impeti che ne derivano. Riesce a farlo grazie alle brillanti interpretazioni attoriali e a una notevole sceneggiatura, ponendo un particolare accento sulle suggestioni visive e uditive, sulla corporeità. La telecamera sembra sempre far capolino nella testa del protagonista: si muove tremolante, è intimidita e scrutatrice, a tratti persa. I colori sono tenui e la delicata colonna sonora (ricorrente e significativa è “Conchiglie”, di Andrea Laszlo De Simone) ci accompagna tra i pensieri di Lucas, tanto ovattati quanto estremamente lucidi. Questo treno di pensieri ingarbugliati trova la propria catarsi in una corsa finale, così liberatoria e che ci lascia sospesi in un tenero lieto fine.

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