All’s Fair è il guilty pleasure più trash dell’anno

All’s Fair non è una bella serie. Questa frase non è un necrologio della carriera di Ryan Murphy (anche se forse dovremmo iniziare a tagliargli i fondi) quanto una verità empirica. Se c’è un piacere nella visione di All’s Fair è quello associato alla sfera del guilty pleasure, ammettere di aspettare il martedì per la nuova puntata è come confessare di essere il ghost-writer delle poesie del Pacciani: ogni persona sana di mente ci scoppierebbe a ridere in faccia e ci darebbe una pacca sulla spalla prima di allontanarsi velocemente da noi. Rotten Tomatoes, il sito che raccoglie i pareri della critica di settore, registra al momento della scrittura di questo articolo un tasso di approvazione del 3% per All’s Fair, un passo avanti notevole rispetto allo storico 0% coincidente con l’uscita dei primi episodi.

Qual è il problema di All’s Fair? Molti tirerebbero fuori un poster della serie e cerchierebbero con un pennarello rosso il viso della sua protagonista, nonché principale selling point, Kim Kardashian. La questione in realtà è più complicata di così e far ricadere tutta la colpa sulla sua fantasiosa assenza di espressività facciale sarebbe un disservizio verso la stessa All’s Fair. Se la serie risulta come un’articolata tortura proveniente da Saw - L’enigmista se fosse stato scritto da un uomo gay, è merito del lavoro di gruppo di tutti i reparti, dai costumi alle ambientazioni, passando per le sceneggiature e il casting. 

Sulla carta, All’s Fair è una storia perfetta per Ryan Murphy e per i suoi collaboratori artistici da Grotesquerie Jon Robin Baitz e Joe Baken. Un vaginodromo (Ferzan Ozpetek ci permetterà di rubargli l’espressione dal suo Diamanti) composto da veterane della sua serialità - Sarah Paulson, Naomi Watts, Niecy Nash e la stessa Kim Kardashian - e nuovi e sorprendenti arrivi come Glenn Close, che con la sua recitazione un po’ camp stupisce non abbia mai partecipato a una stagione di American Horror Story. 

Due avvocatesse, Allura Grant (Kim Kardashian) e Liberty Ronson (Naomi Watts), scelgono di licenziarsi dallo studio in cui lavorano, perché stufe del continuo maschilismo, e di avviare una realtà tutta loro, creata dalle donne e per le donne. Sulla strada per il successo incontrano una nuova partner, Emerald Greene (Niecy Nash con uno dei nomi più ridondanti mai concepiti da Murphy), e nemiche come Carrington Lane (Sarah Paulson, l’interpretazione forse più credibile di tutto il circo), desiderosa di vendetta dopo essere stata esclusa dalla nuova venture legale. Sulla scrivania della Grant, Ronson & Greene arrivano soprattutto casi di donne in cerca di compensazione per i danni arrecati dagli uomini nelle loro vite: divorzi, tradimenti, ma anche sex dungeon e droghe che creano occasioni perfette per inserire come guest star le attrici che non son riuscite a rientrare nel cast principale.

Per essere venduto come un legal drama, la serie sceglie di interessarsi a tutti i vizi e capricci delle tre protagoniste, benefici e danni collaterali del loro successo. Jet privati, vestiti discutibili come i pantaloni da ufficio di Allura Grant che le lasciano in bella vista metà fondoschiena, fidanzati calciatori fedifraghi. I casi sono meri gossip e risolverli, nonostante Emerald rappresenti la stereotipata detective privata, non importa davvero perché tanto basta la scena in cui Liberty e Allura fanno una lezione morale all’uomo di turno, possibilmente togliendogli almeno metà del suo patrimonio. Le penne di Murphy, Baitz e Baker sono impegnate solo nella creazione del neologismo più cunty, più da baddie possibile, dei pastiche di parole intraducibili ma comprensibili solo a una persona cronicamente online di mediamente vent’anni più giovane delle protagoniste. Ogni puntata Carrington Lane invita un nuovo fantasioso modo di insultare le sue colleghe e forse avrà la fortuna di diventare una clip ripresa dai profili TikTok più amanti del trash.

È anche vero che la serie ha registrato il miglior debutto per una serie originale Hulu in tre anni con più di 3 milioni di visualizzazioni. È difficile non sintonizzarsi quando ogni testata giornalistica definisce All’s Fair in questione una delle peggiori serie mai realizzate, chiunque sarebbe disposto a sacrificare quaranta minuti della sua giornata pur di verificare la veridicità di tale affermazione. Bastano dei buoni numeri e la sete di trash per giustificare l’esistenza di una serie così ingenua, che proponendo un femminismo spicciolo e datato da girlboss (rigorosamente scritto solo ed esclusivamente da uomini) desidera solo essere oggetto di meme e di una visione che stacca il cervello? Ovviamente no e All’s Fair probabilmente verrà dimenticata nel momento stesso della sua fine con un discourse social che sta scemando ogni settimana di più, non diventando quel “classico camp” che forse aspira ad essere. Se la qualità è indubbiamente simile a quella degli ultimi progetti di Murphy (non dimenticheremo mai Doctor Odyssey), dovremmo iniziare a chiedere di più anche alla nostra televisione trash e non accontentarci di una lobomotomia settimanale.

Indietro
Indietro

Vita da Carlo 4 – Verdone all’impasse

Avanti
Avanti

The Perfect Neighbor, un modo nuovo di fare documentario?