The Perfect Neighbor, un modo nuovo di fare documentario?

Con un catalogo sterminato e sempre in continuo aggiornamento, Netflix si può considerare tra i maggiori distributori di documentari in forma sia seriale che filmica. La grande quantità di titoli, tuttavia, non corrisponde sempre a una qualità uniforme delle opere; eppure, ogni tanto arriva sulla piattaforma quel documentario che si distingue in maniera evidente dagli altri, o per la sua storia particolarmente ficcante o per una realizzazione tecnica notevole. Nelle ultime settimane è arrivato su Netflix The Perfect Neighbor, documentario di Geeta Gandbhir che non solo si contraddistingue per essere uno dei titoli recenti più interessanti della piattaforma, ma si presenta come uno dei documentari (nonché dei film) dell’anno per il suo innovativo approccio all’immagine cinematografica.

Al centro di The Perfect Neighbor vi è il caso di Ajike "AJ" Shantrell Owens, donna afrodiscendente uccisa dalla sua vicina Susan Lorincz nel giugno del 2023. Il film ricostruisce i litigi tra vicini che hanno caratterizzato il periodo precedente all’incidente, nonché le conseguenze dell’omicidio nella comunità in cui le due donne vivevano. Un caso, questo, che mette in evidenza i forti problemi di razzismo sistemico nella società statunitense e permette quindi al film stesso di non essere una semplice ricostruzione di un caso true crime come molte altre presenti online. The Perfect Neighbor mette fin dal suo titolo al centro della narrazione Susan, una donna bianca che pensa di essere una vicina modello, alla ricerca di quiete e pace, andando tuttavia ad importunare sempre i suoi vicini (afrodiscendenti) con continue telefonate alla polizia. Attraverso la figura di Susan Lorincz, Gandbhir è in grado di esporre e mettere in risalto le discriminazioni insite nella borghesia bianca statunitense, nonché i rapporti ancora complessi di convivenza tra etnie diverse nell’America multiculturale.

Ciò che però eleva The Perfect Neighbor a uno dei film più interessanti dell’anno è la sua esecuzione: il film è il risultato di un lungo lavoro di montaggio di materiali preesistenti, in particolare di bodycam dei poliziotti e di registrazioni di sicurezza. Il modo in cui il film monta questi filmati, narrativizzandoli, è convenzionale; ma la forza del film risiede nell’estrema immediatezza e nell’autenticità restituita da questi filmati, qualità che al cinema si vedono assai raramente. Ciò avviene perché in The Perfect Neighbor non c’è una macchina da presa percepita come ingombrante dai soggetti inquadrati: le registrazioni arrivano da apparecchiature entrate oramai nella nostra quotidianità, al cui obiettivo siamo oramai abituati al punto da non creare alcun disturbo o turbamento rispetto al nostro comportamento. Gandbhir sfrutta questa opulenza di obiettivi e telecamere nella nostra vita proprio per costruire un’opera cinematografica rara, in cui le persone si comportano pienamente come tali, senza che il mezzo cinema possa interferire in nessuna maniera.

Questo utilizzo di materiali de facto documentali - alla naturalezza del comportamento delle persone all’interno del film si contrappone l’evidente freddezza delle riprese, con la loro fissità e il loro innaturale grandangolo – pone una lunga serie di interrogativi, morali e cinematografici: quanto è giusto utilizzare e “drammatizzare” con il montaggio tali documenti? Quanto e cosa si può mostrare della vita di persone vere coinvolte in vicende così sanguinose e criminali? Questa profusione di videocamere nella realtà può davvero diventare un modo nuovo di creare cinema del reale?

È anche per questa lunga lista di domande che The Perfect Neighbor pone che il film di Geeta Gandbhir si può collocare senza dubbio tra i film dell’anno.

Indietro
Indietro

All’s Fair è il guilty pleasure più trash dell’anno

Avanti
Avanti

Mrs Playmen: la donna che sfidò Playboy