La serialità di Bruno Dumont: P’tit Quinquin e Coincoin et les z'inhumains

 
 

Un film di quattro ore che diventa miniserie televisiva, così nel 2014 era avvenuto il debutto sul piccolo schermo per Bruno Dumont, con P’tit Quinquin. Quattro anni dopo l’occasione si è ripresentata con quella che molto superficialmente, per dare una definizione che vendesse bene e facilmente il prodotto, è stata presentata come seconda stagione: Coincoin et les z’inhumains. Le due stagioni, di quattro episodi ciascuna, sono in realtà due serie differenti, due ipotetiche narrazioni parallele, anche se temporalmente lontane, che coinvolgono gli stessi personaggi: Quinquin – che crescendo ha assunto il nome di Coincoin –, il suo amico Le Gros, la fidanzatina, poi ex, Eve, l’ispettore Van Der Weyden e il suo assistente Carpentier.

In un paesino nei pressi della Manica, Quinquin e i suoi amici scorrazzano in bicicletta con il solo obiettivo di disturbare la quiete pubblica almeno finché non accade qualcosa di insolito: una mucca contenente un cadavere smembrato viene ritrovata in un bunker risalente alla Seconda Guerra Mondiale. Hanno così inizio una serie di crimini brutali su cui parallelamente indagano sia l’ispettore che la banda di ragazzini. Nella seconda serie non vi è traccia e nessun rimando al vecchio caso, persino i colpevoli girano a piede libero immemori, eppure una nuova minaccia si abbatte sulla piccola comunità anarchica: una sostanza aliena, nera e viscosa, piove dal cielo e sembra avere il potere di clonare alcune delle creature su cui si deposita. A specchio, ma con differenti dinamiche, partono le indagini dei due gruppi (forze dell’ordine e adolescenti).

La fase seriale della carriera di Dumont, precedentemente docente di filosofia, esplora nuove narrazioni e mondi (primo fra tutti la commedia), pur restando aderente agli aspetti formali che contraddistinguono la sua opera. Attori spesso non professionisti, dai tratti anomali e marcati inseriti in un ambiente arretrato, di provincia, in balia della violenza, dell’ignoranza e del pregiudizio – si pensi a La vie de Jésus. Su questa solidissima base di partenza il regista sperimenta gli schemi di una commedia basata sul non-sense, sull’assurdo e sul paradosso per creare tesi filosofiche da verificare (anche dal pubblico) e per giocare in maniera performativa con la fisicità di una nuova ed eletta popolazione di freaks.

Gli elementi del giallo e dello sci-fi diventano un pretesto per una chiave di lettura superficiale che dia spazio all’umanità dumontiana di muoversi liberamente e di dar voce ai propri disagi – qualcosa di analogo avviene nel lungometraggio del 2016 Ma Loute, ambientato nei primi del Novecento. La brutalità fisica, mitigata da quella irruenta del pensiero e della parola, lascia dilagare il politicamente scorretto che connota l’indole e il corpo dei personaggi. La chiusura mentale, l’ostilità, la diffidenza verso il diverso – un gruppo di migranti in Coincoin – sono i cocci di uno specchio che ingrandisce e distorce le piccole verità di un micromondo fittizio fino a renderle pregnante e simbolica metafora della Francia contemporanea.

L’ilarità allampanata e a tratti demenziale di P’tit Quinquin e Coincoin et les z’inhumains è dunque una trappola ben architettata, mai fine a se stessa o al puro divertissment. Una maschera che soffoca il grido di una società che da sola non sa evolvere che, come accade nel passaggio tra la prima e la seconda serie, resetta per non creare precedenti su cui riflettere e da cui imparare. Rozzi, bizzarri, spietati ed inetti, caricature di chi potrebbero essere e non sono, i personaggi di Bruno Dumont sono i grafemi di un alfabeto filosofico che lo spettatore deve abbinare per creare sillabe e parole che sappiano interpretare le domande che timidamente affiorano dai deliri sconclusionati.

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