Circuito Chiuso: il potere - violento - delle immagini

 
 

Quello di Circuito chiuso è sicuramente un caso più unico che raro all’interno della nutrita filmografia di Giuliano Montaldo, perché si affranca quasi totalmente dal coté storico-drammatico che solitamente ha abbracciato il regista, ma al tempo stesso riesce a mantenere al suo interno una certa radicalità politica (contro il potere) che ha permeato gran parte della sua produzione.

In origine il progetto (finanziato dalla Rai) era stato pensato come film per la Tv, ma portato al Festival internazionale del cinema di Berlino e avendo riscosso un buon successo di pubblico e critica, la Rai pensò di distribuirlo in sala, anche se alla fine non ci arrivò mai per dei disaccordi di carattere economico tra la produzione e gli interpreti.

Ora il film (che peraltro è stato cruciale per la formazione del cineasta romeno Cristi Puiu) è disponibile sulla piattaforma gratuita di Raiplay e rivedendolo oggi si nota che all’interno della evidente confezione da prodotto televisivo, Montaldo lavora audacemente traendone un oggetto totalmente spiazzante anche a distanza di oltre quarant’anni. L’autore di Sacco e Vanzetti e Giordano Bruno mantiene saldo lo sguardo sulla temperie sociopolitica dell’epoca, trasformandolo in una vera e propria lente deformante del reale.

Circuito chiuso è girato quasi interamente all’interno di un cinema romano, dove si sta proiettando uno spaghetti western con protagonista Giuliano Gemma e presenta la struttura tipica del whodonit, dato che uno spettatore viene assassinato all’interno della sala proprio nel momento in cui il pistolero sullo schermo (interpretato da Gemma) spara verso il pubblico.

Montaldo però, già in apertura, inserisce degli elementi caricaturali e grotteschi che ci preannunciano che non stiamo assistendo a un classico giallo, ma a un pamphlet politico che ironizza sulla paura dilagante negli anni di piombo e soprattutto sull’indottrinamento violento delle immagini.

La prima sequenza ci mostra un bambino che punta la pistola giocattolo contro il cartellone fuori dal cinema, poi iniziano ad arrivare altri strani avventori in attesa che la sala apra, tra cui uno strambo sociologo interpretato da Flavio Bucci.

Prima della proiezione in sala, sullo schermo si susseguono una serie di finti spot pubblicitari dal gusto fortemente parodico. Una sorta di preludio al discorso finale esposto da Flavio Bucci, il quale svela e riassume al contempo il portato allegorico del film che abbiamo appena visto. Una riflessione teorica sulle immagini che ci stanno sempre più cannibalizzando, ispirata a un racconto fantastico di Ray Bradbury.

Pur non essendo il lavoro più riuscito di Montaldo, Circuito chiuso è sicuramente una delle sue operazioni più bizzarre, curiose e coraggiose. Il portato politico della vicenda si incarna nel più sovversivo dei generi attraversati dal cinema italiano di quegli anni, ovvero lo spaghetti western, che diventa un meccanismo di messa a morte ripetendosi come un rituale ogni volta che sullo schermo si ripresenta il pistolero che spara verso il pubblico. Montaldo traduce in immagini la teoria di André Bazin contenuta nel famoso saggio Morte ogni pomeriggio, trasformando un classico prodotto di genere in un metafilm che coniuga il lato politico con quello più dichiaratamente teorico.

Circuito chiuso se da un lato pare riproporre il gioco deduttivo della ricostruzione di un crimine all’interno di uno spazio chiuso, come avveniva nell’episodio televisivo Il tram di Dario Argento, dall’altro anticipa il capolavoro di Bigas Luna Angustia, in cui la minaccia che serpeggia all’interno di un film fuoriesce dallo schermo.

A tutti gli effetti Circuito chiuso resta un esperimento seminale, che in embrione preannuncia un preciso e radicale discorso sulla violenza delle immagini e sulla loro potenza condizionatrice che andrà ad esplicitarsi nel successivo Il giocattolo.

Giusto un anno dopo, Montaldo rilegge allegoricamente attraverso la figura di Nino Manfredi la violenza degli anni di piombo e torna la riflessione sulla forza sovversiva del cinema di genere. Non a caso il travet interpretato da Manfredi è un appassionato di spaghetti western che un giorno inizia a impugnare la pistola.

Le immagini ci hanno ucciso per farci rinascere assassini, il discorso di Montaldo non fa una grinza.

Indietro
Indietro

Citadel: la serialità spettacolare

Avanti
Avanti

Netflix in Europa: tra localismi e identità cosmopolite