Echo: un nuovo inizio per la Marvel?

 
 

La crisi di identità è probabilmente il tema più centrale e centrato del contemporaneo. Lo sa bene casa Disney, che proprio nell’anno del suo centenario ha dato prova di stare attraversando un profondo disorientamento dovuto all’incontrollata e bulimica espansione del suo multiverso. Lo sa ancora meglio casa Marvel, che tra numerosi passi falsi legati all’MCU e altalenanti prodotti seriali si ritrova ora a lanciare una nuova costola della sua galassia. Infatti, questa prima stagione di Echo ha il compito di inaugurare l’etichetta Marvel Spotlight, sotto la quale dovrebbero nascere progetti mirati a un pubblico più adulto dove la violenza e le maniere forti la faranno da padrone.

Così, Echo è la prima serie Marvel vietata ai minori di 17 anni secondo i diversi livelli di divieti che vigono negli Stati Uniti (Rated-R), porge l’assist per aprire ufficialmente la strada al Daredevil di Charlie Fox (che nasce al di fuori della Casa delle Idee ma che è ormai entrato a far parte del gruppo e si appresta a esordire ufficialmente con Daredevil: Born Again, presto su questi schermi) e soprattutto cerca di limare al massimo gli elementi soprannaturali per sposare un realismo crudo e privo di filtri sia per raccontare lo scontro fisico tra “il gigante e la bambina”, ovvero tra la protagonista (una ragazza sordomuta e con una protesi alla gamba) e il possente Wilson Fisk (uno dei migliori antagonisti Marvel, che trova nel fisico di Vincent D’Onofrio un'altrettanto valida interpretazione), sia per calare lo show all’interno di uno dei tessuti sociali statunitensi più spinosi: quello dell’integrazione dei nativi americani.

In tutto questo calderone, tra tutti questi opposti, si muove Echo, un progetto costretto a dover costantemente cercare un equilibrio per non scivolare e non scontentare nessuno, ma che finisce purtroppo per restare ingabbiato all’interno della sua stessa ricerca. Se infatti le premesse sono sicuramente interessanti, risulta impossibile non avvertire una certa eco (pensa un po’) che arriva dalla casa base. Marvel non lascia carta bianca a Marvel Spotlight, così come Disney non lascia carta bianca a Marvel. Ecco allora che la violenza sfocia, ma fino a un certo punto, e che il realismo tanto ricercato deve necessariamente cedere il passo al fantasy (la parte meno riuscita della serie).

La crisi identitaria a cui viene sottoposta la protagonista (altro elemento gestito troppo frettolosamente, purtroppo) viene quindi espletata anche dalla sostanza stessa della serie oltre che dalla sua forma. Ne è esempio calzante l’incipit del terzo episodio, quello centrale (sono cinque in tutto), dove al cinema contemporaneo, pirotecnico e digitale, viene accostata una (brutta) sequenza partorita secondo i canoni delle origini. Più che un abbraccio in grado di accogliere al suo interno tutte le spinte creative con le quali si confronta, la serie finisce quindi per apparire come un prodotto spaesato alla ricerca costante di una strada da perseguire, indeciso su quale passo compiere proprio perché, prima di tutto, incapace di comprendere appieno la sua stessa natura. Urge fare chiarezza, prima di rinascere come ci si aspetta da Born Again. Appunto.

Simone Soranna

Simone Soranna, classe 1991, laureato in Lettere moderne. È caporedattore del portale LongTake.it, scrive per la rivista Cineforum, lavora come corrispondente dai maggiori festival internazionali (Cannes, Venezia, Berlino) per Fred Film Radio e ha collaborato come anchorman per SkyCinema.

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