Saltburn: il fascino indiscreto dell’upper class

 
 

Ci sono opere che, nel bene o nel male, entrano nel discorso culturale del proprio tempo e di fronte alle quali è spesso difficile prendere una posizione netta e immediata. Opere divisive, che non possono lasciare indifferenti. A quasi tre mesi dalla sua uscita nelle sale britanniche e a poco più di uno dallo sbarco su Amazon Prime, Saltburn di Emerald Fennell (vincitrice nel 2021 dell’Oscar alla miglior sceneggiatura originale per Una donna promettente) sembra avere le carte in regola per diventare una di queste opere.

Incentrata sull’ascesa del protagonista Oliver Quick (Barry Keoghan) dalle aule di Oxford alle sale di Saltburn, residenza nobiliare della famiglia del compagno di corso Felix Catton (Jacob Elordi), la pellicola è diventata un vero e proprio fenomeno sui social, dando vita a diversi trend, dalle più semplici reaction all’emulazione della scena finale, che ha riportato Murder on the Dancefloor, la hit di Ellis-Bextor, in cima alle classifiche a più di vent’anni dalla sua uscita. Come c’era da aspettarsi, gran parte dell’attenzione si concentra sulle tre scene considerate più scandalose, che hanno suscitato reazioni anche alquanto esilaranti (come la vendita su Etsy di candele con l’aroma di acqua della vasca da bagno di Felix).

All’intessere popolare per una percepita trasgressione, si contrappone un diffuso disdegno da parte della critica, che vede il film come un prodotto derivativo e superficiale, in cui l’intento di riflettere sulle dinamiche di classe risulta fallimentare. E in effetti, se si vuole leggere Saltburn come un film di critica sociale, sull’esempio di Parasite (Bong Joon-ho, 2019), inevitabilmente lo si troverà mancante. Tuttavia l’errore sta proprio qui, dal momento che Saltburn tutto è tranne che una narrazione eat-the-rich (per usare l’espressione che su internet ricorre quando si parla di tematiche legate alla lotta di classe). La presunta ambizione del film di fornire una riflessione sulle dinamiche sociali in effetti è supportata da alcune dichiarazioni della regista stessa, che definisce Saltburn come “class satire”. Ma le intenzioni autoriali vengono meno nel momento in cui Fennell, che per estrazione sociale è vicina all’ambiente dei Catton, si trova (più o meno consapevolmente) a indugiare sulla rappresentazione celebrativa dell’élite decadente e dei suoi costumi. Una situazione che trova un precedente illustre in Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti che, come ben illustra Francesco Piccolo nel romanzo La bella confusione (2023), da un’iniziale opera di stampo marxista è diventata una sublime rappresentazione della decadenza della nobiltà, proprio in virtù dell’appartenenza di Visconti a questa classe sociale.

Spogliato dunque di una mendace veste morale, cosa rimane a Saltburn? La grandezza di questo film si trova nello stile, più che nel contenuto. La trama in sé è poco importante, se non come un meraviglioso esempio di citazionismo postmoderno. Nella parabola del protagonista sono chiari gli echi di personaggi come Barry Lyndon, Tom Ripley e Heathcliff (la stessa scena di Oliver sulla tomba di Felix, uno dei tre momenti più discussi del film, sembra un riferimento a Cime tempestose e al desiderio di Heathcliff di ricongiungersi a Catherine nella sua sepoltura). Altre fonti vengono esplicitamente citate, come Sogno di una notte di mezza estate (nella festa di compleanno di Oliver) e i romanzi di Evelyn Waugh (i cui personaggi, nella finzione filmica, sarebbero stati influenzati da alcuni illustri membri della famiglia Catton, come dichiara Felix a Oliver). Molti elementi narrativi sono poi perfettamente riconducibili al filone, ormai molto popolare, della cosiddetta dark academia, che trova in Dio di illusioni (1994), il romanzo d’esordio di Donna Tartt, l’esempio più paradigmatico.

Su questa impalcatura manierista, Fennell costruisce un opulento edificio decadentista, in cui ossessione e desiderio (per i corpi, per gli oggetti, per il potere) permeano ogni anfratto. L’effimero e la bellezza, morbosa e vuota, sono il centro di gravità intorno a cui ruotano tutte le scelte del film, a partire da quelle stilistiche: la scelta di girare in pellicola e con formato 1,33:1, la fotografia estetizzante di Linus Sandgren (a un anno dalla collaborazione con Damien Chazelle sul set di Babylon), la magistrale interpretazione del cast al completo. La superficie come elemento fondamentale viene reso visivamente dal continuo ricorrere di specchi, finestre e acqua, usati sia come mezzi per sdoppiare e moltiplicare l’immagine che come cornici attraverso cui mediare la realtà. La prevalenza della forma sul contenuto è dichiarata esplicitamente nel primo atto del film, quando Farleigh (Archie Madekwe), cugino di Felix e rivale di Oliver, rivendica il diritto di criticare lo stile del saggio del protagonista, anziché la sostanza, dal momento che «Non è cosa si discute, ma come». Sta tutta qui la poetica di Saltburn, la sua grandezza. La forma è la sostanza. Nessun messaggio morale, niente etica. L’ideale decadente dell’art for art’s sake. Lo si può apprezzare o meno, ma non si può non riconoscere che Saltburn, pastiche armonico e sublime, sia perfettamente riuscito nel suo intento.

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