The Kitchen: il ghetto movie futuristico di Daniel Kaluuya

 
 

Affiancato dal conterraneo Kibwe Tavares, con cui Daniel Kaluuya ha collaborato in passato ad alcuni cortometraggi d’animazione fantascientifici, l’attore londinese protagonista di Scappa – Get Out e Judas and the Black Messiah debutta alla regia e alla sceneggiatura col curioso pur se non eclatante The Kitchen, premiato ai British Independent per la Miglior Sceneggiatura e i Migliori Effetti Speciali. Un’opera prima distopica, storia di formazione e legami familiari, influenzata dalle tendenze del black cinema statunitense di cui Kaluuya è oggi uno dei principali interpreti.

Nella Londra del 2040, dove il divario tra classi si è fatto ormai incolmabile e le forme di edilizia sociale sono state soppiantate da una gentrificazione selvaggia, la comunità di The Kitchen resiste imperterrita per difendere la propria identità e radici. Qui Izi, che cerca di abbandonare il quartiere e un passato ingombrante, incontra Benji un ragazzino di dodici anni di cui è probabilmente padre e per il quale diverrà una figura di riferimento dopo la recente morte della madre.

Già dalla sinossi è evidente l’influenza orwelliana del film. Effettivamente The Kitchen pare una rielaborazione di 1984 dove si perde il discorso ideologico, ma permane l’idea di un sentimento sincero e costruttivo che germoglia in un contesto sociale ormai arido per crescere e scardinare gli equilibri interni dei protagonisti. La dimensione umana dei sentimenti contrasta così con quella meccanico-tecnologica che condiziona la vita nell’opprimente edilizia dei palazzoni grigi sullo sfondo del film, in un conflitto ormai perso ma combattuto strenuamente fino all’ultimo. La resistenza della piccola comunità di The Kitchen ricorda allora quella dei ghetti statunitensi, dove il senso di comunità allargata porta ad accettare il vicino escludendo chi non fa parte di quella realtà e dunque è destinato ad abbandonarla. E in questa dimensione di famiglia allargata anche i ruoli parentali vengono facilmente a mischiarsi e confondersi, come bene ha espresso un certo cinema afroamericano che sull’assenza e la presenza di padri biologici o naturali ha costituito uno dei suoi filoni di maggior successo, un esempio per tutti Moonlight di Barry Jenkins.

La variazione sul ghetto movie di Kaluuya si inserisce su questa scia senza però aggiungere molto a quanto già detto e visto. L’ambientazione futuristica appare difatti quasi un pretesto per esasperare la lettura tecnofobica alla base del racconto. È evidente che lo sguardo del regista sia in realtà rivolto al presente di sistemi tecnologizzati e intelligenza artificiale di cui coglie il diffuso allarmismo verso un ipotetico sviluppo incontrollato, le cui conseguenze porterebbero a una sempre maggior alienazione collettiva. Così, all’isolante impoverimento emotivo di una Londra futura, il caseggiato di The Kitchen risponde con un protettivo senso unitario che fa da collante contro l’esterno: le azioni di guerriglia per contrastare l’avanzata capitalista ai danni degli abitanti, i momenti di condivisione collettiva, i sentimenti più o meno espliciti che nascono tra i membri stessi, cui Kaluuya concede maggior spazio narrativo. Ma il legame tra Izi e Benji non supera il classico rapporto tra padre e figlio ritrovatisi dopo anni, dove a un iniziale conflitto tra i due si sostituisce una crescente fiducia reciproca che apre a un’accettazione definitiva. L’atteggiamento distaccato dell’uomo, che nega la sua paternità e respinge il ragazzo ma lentamente finisce per assumersene la responsabilità quando si rende conto dei rischi che il figlio correrebbe da solo, è il più classico dei cliché di questo genere a cui il black cinema d’oltreoceano sta cercando di offrire valide alternative.

Il tentativo di Kaluuya di trasferire nel contesto europeo le dinamiche socioculturali del cinema afroamericano non si può dunque dire del tutto riuscito. Nonostante la quasi esclusività nera del cast del film, la questione etnica non è minimamente affrontata, facendone un involontario “specchietto per allodole” che rende The Kitchen un’opera monca, con un grande potenziale purtroppo non del tutto espresso. Una tentata apertura a un discorso panafricano che certo è un primo passo, ma in questo caso forse troppo lungo.

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