Fingernails: il cinema greco della rottura soffocata

 
 

La new wave del cinema greco ha preso piede da ormai una quindicina di anni. Yorgos Lanthimos ha spianato la strada a una sempre più lunga lista di colleghi che si contendono le line up dei festival più prestigiosi, e di recente anche le piattaforme. Ultimo arrivato, al suo secondo lungometraggio, è Christos Nikou, che di Lanthimos è stato l’aiuto regista sin dal 2009 (anno in cui venne realizzato Dogtooth). Con il suo esordio, Apples, Nikou aveva destato interesse alla Mostra di Venezia del 2020, dove compariva tra i selezionati della sezione Orizzonti, tanto da colpire la Presidente di Giuria del concorso, Cate Blanchett, che per questo nuovo film compare nelle vesti di produttrice. Fingernails – una diagnosi d’amore (Fingernails), questo il titolo dell’opera, è un prodotto che mantiene saldi i caratteri tipici del cinema greco, smussandoli e rendendoli più compatibili a un pubblico mainstream che con manierismi, grandangoli, musiche incombenti e apatia disturbante non hanno grande familiarità.

In una società contemporanea in cui è sempre più difficile trovare la persona giusta con cui condividere la vita e un progetto di futuro, le coppie si sottopongono a un test che stabilisce la compatibilità dei sentimenti e la percentuale di amore presente. Ad occuparsi dei test e della formazione delle coppie, necessaria per conservare il legame, per rinsaldarlo e renderlo indissolubile sono i dipendenti dell’Istituto dell’amore. Tra essi è stata da poco assunta Anna (Jessie Buckley), giovane donna che vive felicemente la sua relazione, idonea al 100%, con Ryan (Jeremy Allen White). Anna crede fermamente nel progetto dell’istituto, nel test e nella sua validità, almeno finché non si accorge di provare sentimenti che non dovrebbe per il suo supervisore Amir (Riz Ahmed).

Per quanto l’ambiente in cui si muovono i personaggi di Fingernails non presenti sostanziali differenze strutturali rispetto al nostro, e dunque non segua un’organizzazione tipicamente distopica, sono la fiducia e l’intuito dell’individuo ad essere annullati. Uomini e donne, stanchi delle delusioni, della sofferenza e del dolore emotivo, si affidano a macchine che, seguendo un criterio inesistente ed indecifrabile, decidono per loro. Il test, invasivo e fisicamente doloroso, comporta che a entrambe le metà venga strappata un’unghia, il confronto delle due, all’interno di una macchina che somiglia a un forno a microonde, decreta il risultato della sperimentazione, espressa rigorosamente in percentuali che non prevedono vie di mezzo – 0% o 100%. L’assurdità delle dinamiche non desta scalpore o clamore, le coppie si fidano ciecamente, credono nei risultati e nella validità degli esercizi che lo staff dell’istituto impone loro: prove di forza, di controllo che li rende sensibili ad istinti primordiali e animaleschi che risvegliano in loro il bisogno dell’altro. La solitudine non è concepita, come in The Lobster, e i partner sono accomunati da caratteristiche insignificanti che non scavano nel profondo, nel sentimento o nell’intimità. Il sopravvivere delle relazioni è appeso a un filo che le Parche del destino tecnologico decidono se tagliare o mantenere integro. All’interno di situazioni paradossali e stranianti si fa largo la storia d’amore paradigmatica di Anna che, sorprendentemente, una volta a contatto con la scienza nuda e cruda della teoria in cui crede, si apre alla possibilità di un errore macroscopico. Anna crede di essere innamorata di Ryan perché è il test a provarlo, eppure sente crescere in sè, sempre più vigoroso, il germoglio di un nuovo amore, puro, energico e difficile da incanalare. Anna e Amir rappresentano i ribelli che la ragione e il sentimento, entrambi connotati negativamente da un sistema castrante, stimolano a tal punto da portarli alla rottura della bolla in cui non vivono davvero, ma vegetano. Il cambiamento è dunque possibile solo se si ha il coraggio di guardarsi negli occhi e di affrontare un eventuale rifiuto, di rompere la quotidianità monotona di una routine in cui le parole dolci e i complimenti hanno perso significato e sono diventate mere parole d’ordine di un linguaggio spersonalizzato.

Nonostante Nikou attinga tematicamente – discorso sul linguaggio, sugli istinti animali, sull’annullamento dell’individuo – al cinema di Lanthimos, ciò che manca a Fingernails è l’efficacia di una regia che modelli e dia dimensione alla storia. Il regista simula e ripropone gli stilemi di una classica commedia romantica indie, nel tentativo di far rientrare il lungometraggio nel genere; purtroppo ciò che, al contrario, ne esce è un film piatto, noioso, visivamente poco stimolante, che non dà spazio alle riflessioni che necessiterebbero di una struttura solida che le possa supportare e rendere materiale d’indagine per lo spettatore. Gli attori si muovono, incerti, in ambienti impersonali che non li accolgono e neppure confortano. I colori slavati, i modi sciatti, i corpi piccoli ed ingobbiti dall’ordinario non risplendono di vita e di eccitazione, si piegano su loro stessi in una molle e sconsolata attesa di quel che verrà, senza appigli, nella pallida luce di una continuità disorientante che non li spinge sufficientemente verso la ribellione, troppo quieta, sommessa, sussurrata, come quel dolore del distacco che viene soffocato e tamponato affinché, nonostante faccia male, non provochi troppo rumore.

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