Sly: Netflix punta il riflettore sull’icona Stallone

 
 

È una questione di icone. Thom Zimny lo sa bene (non a caso è regista di numerosi progetti audiovisivi legati a Bruce Springsteen, tra cui il concerto del 2018 targato Netflix Springsteen on Broadway) e lo sa bene anche la piattaforma della N rossa, che negli ultimi anni sembra essere assai interessata a lavorare sul divismo, sulla popolarità delle leggende che hanno scolpito l’immaginario (si vedano i progetti dedicati a Vasco Rossi, David Beckham o Ilary Blasi, solo per citare i più recenti). Così, in Sly, documentario scelto per chiudere l’edizione 2023 del Festival di Toronto, sono proprio le icone a scandire la narrazione. Zimny architetta un grande flusso di coscienza che prende il via dai cimeli personali che Stallone stesso sarà costretto a riesumare per via di un trasloco.

Il tempo è il vero protagonista del film. Il tempo e i cambiamenti che da esso derivano. Fotografie, ricordi, pellicole, b-sides, registrazioni, rughe, scartoffie, frames, interviste, programmi televisivi, premi impolverati, giocattoli, statuine: tutto concorre in un processo di accumulo che necessita di essere ordinato. Sly non è un documentario biografico. È invece un film perfettamente contemporaneo in cui il protagonista sente l’esigenza di orientarsi nel mare magnum che lo circonda, nella confusione della sua stessa esistenza. Non si raccontano le gesta di Sylvester Stallone, si raccontano le sue emozioni, la sua passione, le sue ferite. 

Questa è l’icona che lascia il segno oggi. In un’epoca in cui il divismo ha ceduto il passo alla democrazia, in anni in cui la comunicazione, i social media e l’interazione hic et nunc hanno cannibalizzato qualsivoglia desiderio voyeuristico, di scoop, demitizzando le star e idolatrando le very normal people (come recita, volutamente, lo slogan della radio più ascoltata d’Italia), ragionare sulla fama e sulla costruzione di un’icona significa fare i conti con l’irrazionale, con le emozioni lontane dal nostro vissuto. Il pubblico ha fame di brividi che difficilmente potrà provare sulla sua pelle. Non è più incuriosito dai retroscena, dagli ambienti irraggiungibili o dal dietro le quinte di vite sfavillanti. Tutti quei dettagli, volenti o nolenti, sono entrati nelle case di chiunque tramite i nuovi canali di comunicazione aperti 24/7. Quello che manca, invece, è proprio la sostanza, l’essenza di un’esperienza unica sepolta sotto la polvere del tempo. 

È proprio in questo solco che Thom Zimny inserisce il suo film. Sly non racconta nulla di nuovo, nulla che già non sapessimo in merito al suo protagonista. Tuttavia lo fa proprio sposando lo sguardo dello stesso Stallone, dando poco spazio a commenti esterni (alcuni, immancabili, fungeranno più da richiamo che da vero traino pulsante del documentario) per concentrarsi su una sorta di confessione a cuore aperto che non potrà mai essere oggettiva, ma che proprio nella sua spudorata e “meschina” parzialità, riesce a colpire nel segno stordendo più di un gancio all’ultimo round. Ko tecnico.

Simone Soranna

Simone Soranna, classe 1991, laureato in Lettere moderne. È caporedattore del portale LongTake.it, scrive per la rivista Cineforum, lavora come corrispondente dai maggiori festival internazionali (Cannes, Venezia, Berlino) per Fred Film Radio e ha collaborato come anchorman per SkyCinema.

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