Maestro: l’ambizioso fallimento di Bradley Cooper

 
 

Il passaggio da davanti a dietro la macchina da presa è un salto nel vuoto che sempre più attori, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, tendono a eseguire spesso con noncuranza e leggerezza, poiché della settima arte credono di aver imparato trucchi e segreti dai grandi maestri che lo hanno diretti. Tra i nomi più popolari, acclamati dalla Hollywood che li ha forgiati, vi è quello di Bradley Cooper che con il suo primo lungometraggio, A star is born (2018), era arrivato dritto agli Oscar, pur confezionando un prodotto impreciso e poco organico. Maestro, opera seconda, presentato in concorso alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia e approdato a ridosso di Natale su Netflix, fa qualche progresso, abbozzando una sorta di regia fluida e dinamica, almeno per una prima parte del film.

Un biopic annunciato dal 2019, un “sentito” omaggio a un grandissimo artista del Novecento: Leonard Bernstein. Eppure, la biografia del compositore e direttore d’orchestra prende vita non tanto attraverso l’arte, quanto attraverso la sua storia d’amore, e in seguito matrimonio, con Felicia Montealegre. L’articolato processo di creazione, di raggiungimento della fama, di esecuzioni autoriali di uno degli uomini di musica più richiesti a livello mondiale tra gli anni Cinquanta e Settanta, resta sullo sfondo ed interviene come edonistico intermezzo ad impreziosire i momenti salienti della relazione tra Lenny (Bradley Cooper) e Felicia (Carey Mulligan).

Cooper crea una struttura di quadri, quasi slegati l’uno dall’altro, che rappresentano le tappe di una vita che si fonda sull’amore e sul desiderio. Felicia è il centro del mondo di Bernstein, anche se esso si muove in molte altre direzioni, coinvolgendo colleghi e giovani musicisti che diventano compagni di relazioni parallele e sempre alla luce del sole. L’umanità dei personaggi, la loro imperfetta fragilità viene esaltata da dialoghi, sguardi e gesti che racchiudono un’infinità di sfumature, soffocate da una fretta impellente, e immotivata, di arrivare allo spettatore in maniera eclatante. Come sempre accade in quei film che sono confezionati per primeggiare nell’award season, la favola deve farla da padrona sia sul piano professionale che su quello privato: gli esordi di Bernstein sono in bianco e nero, frenetici, animati da un giovanile sgomento interiore che si manifesta stilisticamente con un lungo piano sequenza in teatro da cui vita, arte e film, spiccano il volo. In seguito alla prima performance del maestro, quando la camera è fissa, dal fondo di una strada buia, fa la sua elegante passerella, fino al primo piano, Felicia che guarda in macchina – proprio come accadrà nell’ultima scena. Felicia è pronta a fare il suo ingresso nella vita del futuro marito, a seguirlo, a sostenerlo da dietro le quinte dei teatri più prestigiosi, a portare il colore che si manifesta proprio mentre Felicia di spalle assiste ai successi dell’uomo che ama e che ha sempre conosciuto per quello che è veramente.

Maestro, che potrebbe intitolarsi in qualunque altro modo sortendo maggior affinità con il suo contenuto, si regge, dunque, sulle prove attoriali dei suoi interpreti, in particolar modo su quella di Carey Mulligan che illumina lo schermo, che con un sospiro trasmette la sinfonia emotiva di una donna straordinaria e anticonformista, mentre Cooper si aggrappa all’imitazione, al trucco per somigliare, almeno in superficie, al maestro che tanto sembra ammirare (almeno questo si evince dalle numerose interviste rilasciate dall’attore). Ciò che appare lampante è la fatica che il buon Bradley fa nel dividersi tra i suoi compiti, regista, attore e sceneggiatore. E’ ancora la fretta e forse l’ansia da prestazione che lo ingabbia, che lo porta ad essere poco credibile in qualunque veste: nonostante ci siano evidenti segnali di buone intuizioni, raramente prendono una forma piena, concreta e convincente, tante sono le occasioni sprecate, lasciate cadere nel vuoto perché l’arco narrativo di una vita straordinaria e costellata di eventi è troppo ampio. 

Forse la verità è semplicemente che la destinazione per piattaforma, in origine non presa in considerazione, era la sola possibilità per Maestro, soprattutto nell’era in cui Netflix sta perdendo appeal e sta decisamente appiattendo la validità dei suoi contenuti. Per il colosso dello streaming, d’altra parte, si tratta dell’occasione ghiotta per non essere escluso dalla competizione ai Globes e agli Oscar, non avendo altri prodotti su cui poter puntare. Il bilancio, in conclusione, è quello di un compromesso ben congeniato che sfrutta fama, successo e denaro per piacere disperatamente ad un pubblico che poco frequenta la sala e che viene catturato dalla grandiosità mostrata e mai esplorata sufficientemente. Peccato che a pagarne le conseguenze sia stato Bernstein, ridotto ad una caricatura bidimensionale che gesticola e sorride senza troppo criterio.

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