The Crown: la fine di un’era

 
 

Se gli ultimi mesi del 2022 sono stati segnati dalla fine del regno della monarca più longeva della storia, l’anno successivo ha visto la conclusione di una delle serie più seguite di sempre, che proprio nella figura della regina d’Inghilterra trovava il suo fulcro. Nel corso di otto anni, sei stagioni e sessanta episodi, The Crown ha ripercorso la storia recente della corona inglese e delle persone che la compongono, insieme a quella del Regno Unito. Come tutto ciò che concerne la famiglia reale britannica, anche la serie ha polarizzato l’opinione del pubblico e dei critici, amata da alcuni e da altri trovata irrispettosa, accusata simultaneamente di essere anti-monarchica ed eccessivamente indulgente nei confronti dei Windsor. Ora, dopo la conclusione di questo capitolo, è forse arrivato il momento di tirare le fila e riflettere su ciò che lascia in eredità The Crown.

Ma prima di fare un bilancio generale sulla serie, è doveroso concentrare un attimo di attenzione sulla stagione finale che, duole ammetterlo, segue il trend negativo della stagione precedente, considerata, nell’opinione quasi generale, molto lontana dalla qualità (soprattutto nella scrittura) delle prime stagioni. Sono diverse le ragioni di questo declino della serie e si possono tutte ricondurre alla perdita di vista dell’anima stessa di The Crown. Occorre qui fare una breve parentesi sul creatore del prodotto, Peter Morgan, che con questa serie chiude un’ideale trilogia incentrata sull’istituzione della monarchia britannica, iniziata nel 2006 con quello che forse è il più intenso e sublime ritratto dedicato alla figura di Elisabetta II: The Queen, diretto da Stephen Frears e sceneggiato appunto da Morgan. La protagonista della pellicola, Helen Mirren, riprenderà il ruolo della regina anche nello spettacolo teatrale scritto da Morgan nel 2013, The Audience, che metteva in scena le udienze private tra la monarca e i suoi primi ministri (è interessante notare come molti dei dialoghi scritti per questa pièce siano stati ripresi quasi verbatim nella serie).

Già da queste due opere precedenti emergono le tre caratteristiche essenziali di The Crown: il desiderio di “sbirciare dal buco della serratura” la dimensione umana dietro l’istituzione, la presenza dell’elemento politico e la centralità della figura di Elisabetta II. Ed è proprio la progressiva perdita di questi tre cardini a fare delle ultime stagioni della serie una pallida imitazione di ciò che era al principio. Con l’avvento della presenza “ingombrante” del personaggio di Diana e della tormentata storia matrimoniale dei principi di Galles, la regina viene relegata a un ruolo pressoché secondario e così anche le vicende politiche del paese, che nelle prime stagioni avevano un peso consistente e spesso andavano di pari passo con le vicende personali della famiglia reale, diventate ora meramente accessorie.

Arrivati alla sesta stagione, The Crown non alletta più con la promessa di far vedere al pubblico una (fittizia ma pur sempre invitante) ricostruzione di ciò che non avrebbe mai potuto vedere o sapere, ossia quello che è avvenuto dietro le porte ben chiuse di Buckingham Palace. I creatori della serie hanno sempre più difficoltà a “riempire i vuoti” quando tutto ciò che stanno per mostrare è stato documentato e riprodotto centinaia di volte in qualsiasi media possibile. Tutto quello che viene mostrato della principessa Diana, degli scandali, delle interviste, il pubblico lo conosce perfettamente.

I momenti migliori della stagione sono quelli in cui il centro di gravità ritorna ad essere la regina, “l’unica persona che conta, [...] l’ossigeno che noi respiriamo, l’essenza di tutti i nostri doveri” come ricorda Filippo a Diana (e forse avrebbe dovuto ricordarlo anche agli sceneggiatori) nel finale della quarta stagione. Gli altri personaggi e le loro storie funzionano quando fanno da contrappunto alla figura di Elisabetta, non quando vengono sviluppate in autonomia (si pensi alla parentesi da rom-com universitaria di William e Kate). Non perché le storie degli altri componenti della famiglia non siano importanti, ma perché dalla prima stagione è al personaggio della monarca che il pubblico si interessa, nel bene e nel male, e vederla passare in secondo piano con l’avanzare della serie non può che lasciare interdetti.

The Crown è stato senz’altro uno dei prodotti culturali che più hanno caratterizzato l’immaginario contemporaneo della famiglia reale ed è facile cedere alla tentazione di tracciare parallelismi con la decadenza della monarchia stessa, sempre più anacronistica nel mondo moderno e al suo interno sempre sconvolta da scandali e faide famigliari. Ma restando nell’ambito dell’audiovisivo, The Crown è un esempio sintomatico della fascinazione del pubblico (britannico e non solo) per le vite private delle élite, che trova in Downton Abbey (2010-2015) il predecessore più illustre. Tuttavia entrambi questi prodotti mantengono inevitabilmente un posizionamento ambiguo nei confronti dei privilegi e nelle disparità insite nel materiale trattato. Nel caso di The Crown il tutto risulta ancora più problematico, dal momento che non si tratta di romanticizzare la vita di una immaginaria famiglia aristocratica degli inizi del Novecento, ma dei membri di un sistema istituzionale reale e i cui privilegi e i cui scandali hanno un impatto effettivo e tangibile. Ed è sintomatico che una delle critiche più dure, ma condivisibili, che la serie muove alla famiglia reale e, per estensione, alla classe sociale aristocratica a cui appartiene venga affidata a un personaggio tanto divisivo come Margaret Tatcher, in un dialogo col marito durante la visita a Balmoral (“Faccio estremamente fatica a trovare qualità apprezzabili in queste persone. Non sono sofisticate, acculturate, eleganti, qualsiasi cosa che sembri un ideale. Sono...” “Sono snob, maleducate e rozze?” “Esatto”).

Sarebbe necessario un serio esame della fascinazione morbosa che l’élite esercita tuttora sulla classe intellettuale e artistica in Gran Bretagna, fascinazione perfettamente messa in scena in un altro prodotto del 2023, Saltburn di Emerald Fennell (che curiosamente è anche l’interprete di Camilla nella terza e quarta stagione di The Crown). Al momento però, non si può che concludere un pezzo su The Crown con un doveroso bilancio positivo, per un prodotto che si è giustamente guadagnato un posto di riguardo nell’albo della serialità televisiva, con prove attoriali sempre notevoli e una produzione di altissimo livello.

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