Monster – La storia di Ed Gein: Il mostro che non sapeva diventare adulto

Nel 2025, in un’epoca in cui il true crime è diventato merchandising e i serial killer vengono trasformati in meme, Ed Gein rimane l’unico che non riusciamo davvero a digerire. La terza stagione di Monster è, allo stesso tempo, l’episodio più estremo e – da un certo punto in poi – il più intimo della serie di Ryan Murphy. Estremo perché non va per il sottile: affonda le mani nel grottesco con la determinazione di chi vuole arrivare fino all’archetipo originario del serial killer americano, quello da cui tutti gli altri sono nati. Intimo perché, con un movimento narrativo azzardato ma potente, ci costringe a empatizzare con la parte più fragile e infantile di questo mostro americano. In due parole: Ed Gein.

Dimenticate Dahmer, con il fascino oscuro dell’orrore filtrato da un attore magnetico e una regia ipnotica. Dimenticate anche Lyle and Erik Menendez, che giocava sul melodramma familiare. Qui non c’è glamour né tragedia romantica: c’è una pianura ghiacciata del Wisconsin e un uomo che sembra un garzone di ferramenta. Uno di quelli pronti ad aiutarti a caricare la legna e che poi, la notte, esce a disseppellire il corpo di tua madre per vestirsi con la sua pelle. O gli fa esplodere il cranio a fucilate per poi appenderla come una scrofa nel fienile.

Gein non è raccontato come villain, ma come cortocircuito tra banalità e orrore. E uno straordinario Charlie Hunnam, lontanissimo dai ruoli che l’hanno reso celebre, gli entra sotto pelle restituendone l’aspetto penoso più che quello seducente o iconicamente inquietante. La regia è discontinua – si passa dall’ossessione quasi clinica dei primi episodi, fatta di dettagli compulsivi e ambienti saturi, a inquadrature più ampie e contemplative nel finale – ma il risultato è coerente: più che un horror, Monster – La storia di Ed Gein è un necrologio nazionale. Un requiem per quell’America che non è idealizzata ma reale: quella delle madri fanatiche e dei figli cresciuti più con i versetti che con gli abbracci. Dove l’amore materno è possesso, non protezione. Dove l’intero Paese sembra un figlio che non vuole – o non riesce – a crescere.

La scelta più discutibile riguarda quei momenti che, pur rappresentando una delizia cinefila, flirtano con l’idea che alcune celebri sequenze di Psycho, Non aprite quella porta o Il silenzio degli innocenti siano state copiate in modo quasi identico da eventi realmente accaduti a Gein. Da un lato è un modo astuto per suggerire quanto la sua figura abbia riscritto l’immaginario dell’horror. Dall’altro rischia di risultare inopportuno – perché le vittime erano persone vere, Gein compreso – e talvolta persino goffo nel suo intento meta-cinematografico.

Ma gli ultimi due episodi riscattano ogni incertezza e portano la stagione verso una chiusura potente: una sequenza finale semplice, quasi muta, eppure perfetta nel restituire l’essenza di Gein. Un uomo che ha fatto a pezzi i corpi, ma non è mai riuscito a spezzare davvero il cordone con sua madre. Un mostro, sì. Ma anche un bambino che non ha mai trovato il modo di diventare adulto. E forse è proprio questo – più del sangue e dei cadaveri – a inquietarci davvero.

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