Mountainhead: il debutto di Jesse Armstrong al cinema tra satira e caos digitale su NOW

Mountainhead segna il debutto cinematografico, nel formato più che nella forma, di Jesse Armstrong, uno degli autori televisivi più sagaci e per questo premiati dell’ultimo decennio. Dopo aver creato Peep Show, un’esplorazione satirica dell’amicizia maschile, ha partecipato alla scrittura della satira di Armando Iannucci sul governo britannico The Thick of It e a quella sul governo americano Veep, arrivando nel 2018 ad approdare su HBO con la sua Succession, riconosciuta dalla critica internazionale come una delle serie più belle di tutti i tempi e premiata con fiumi di Emmy e Golden Globes. 

In ottica Emmy, Mountainhead appare un prodotto costruito a tavolino, annunciato a sorpresa e uscito su HBO Max giusto entro la deadline per essere presi in considerazione dai premi e soprattutto poter essere ancora freschi nella mente dei votanti. Al centro un mix curioso di attori sulla carta avvezzi all’ironia di Armstrong: Steve Carrell, Jason Schwartzmann, Ramy Youssef e Cory Michael Smith. Quando ho letto per la prima volta di Mountainhead ho pensato - a posteriori sarebbe meglio dire “profetizzato” - che tutto ciò era troppo bello per essere vero e che un inganno doveva essere sotto l’angolo. Mountainhead, purtroppo, è la prova dei limiti di Armstrong, che qui cade facilmente in una cacofonia grottesca, senza ricordare l’arte della sottigliezza che aveva reso grande Succession. 

Quattro amici e player fondamentali nel contesto delle nuove tecnologie, soprannominati i Brewsters, si ritrovano in una lussuosa casa sulle montagne dello Utah, mentre il mondo crolla in un abisso di violenza influenzato dalle fake news diffuse in rete. Tra vecchie e nuove rivalità, altarini svelati e accordi mai siglati, il dramma da camera che si snoda tra quei vetri (più che mura, visto il look della dimora) è più interessante per Armstrong di qualsiasi notizia venga annunciata dai telegiornali o delle notifiche che affollano i loro schermi. 

Per quanto l’intento di Mountainhead, esplicitato anche dal personaggio di Rami Youssef che funge da coscienza esplicita, sia quello di criticare il circo mediatico creato da personaggi egocentrici che pensano solo al loro tornaconto personale (vedi Mark Zuckerberg o Elon Musk), ma la sceneggiatura è talmente innamorata delle cieche contraddizioni dei quattro protagonisti da non riuscire ad andare oltre a un’indagine superficiale

Se la satira ha bisogno di una continua didascalia, di una voce della ragione che spiega al pubblico in ogni istante come deve sentirsi, perde ogni sua potenza e la regia rigida di Armstrong priva la storia di ogni possibile energia propulsiva. 

Per essere quattro personaggi presentati come amici di vecchia data, il passato condiviso dai Brewsters è pressoché inesistente, al di fuori del rapporto ambivalente tra Venis e Jeff che appaiono come una copia sbiadita di Kendall e Stewy di Succession. La caratterizzazione non è mai sufficiente da poter rendere i quattro cavalieri dell’Apocalisse dei soggetti distinguibili dai mali che esercitano. Sono caricature spogliate da ogni complessità umana, vacue pedine per un gioco di cui nemmeno Armstrong sa appieno le regole. Sono personaggi in media res, figli di una storia che il pubblico non può conoscere e che riduce l’impatto persino dell’exploit di follia che apre il terzo atto di Mountainhead.

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