Mubi: la nuova cinefilia globale

 
 

Nel panorama mediale contemporaneo, in cui le piattaforme streaming sono spesso considerate l’antitesi della cinefilia, risalta l’esempio di Mubi, punto di riferimento per gli appassionati di cinema ma probabilmente sconosciuta a gran parte del pubblico generalista. Mubi è uno degli esempi più interessanti della cosiddetta new cinephilia, quella forma di cinefilia che si dà all’interno dei media digitali, che si manifesta su piattaforme come You Tube o Letterboxd. Vediamo in che modo Mubi si inserisce in questa categoria.

Mubi nasce con il nome The Auteurs nel 2007, stesso anno in cui Netflix debutta come piattaforma streaming. The Auteurs si pone agli antipodi rispetto a quest’ultima, presentandosi già a partire dal nome come una piattaforma interessata ad altri contenuti e ad altro pubblico. Come riprova di ciò, The Auteurs viene fondata in partnership con Celluloid Dream e Criterion Collection, che oltre a mettere a disposizione alla piattaforma i propri cataloghi, le garantiscono uno status di prestigio e qualità.

In linea con i caratteri distintivi della new cinephilia, il servizio consente ai suoi utenti di condividere opinioni sui film, dare voti e suggerire i titoli che più sono piaciuti. Questa dimensione partecipativa di The Auteurs va in parallelo con l’offerta proposta: a differenza del modello ad aggregazione di Netflix, The Auteurs propone una library basata sulla curation. I film sono accuratamente selezionati da esperti, in linea con un principio generale che predilige film art house, di particolare rilievo artistico e culturale. La totale mancanza di serialità televisiva, inoltre, distanzia sensibilmente la piattaforma dagli altri grandi servizi di streaming di questi anni. L’elemento autoriale, molto importante all’inizio, perde di rilevanza qualche anno dopo, quando nel 2010, durante il Festival di Cannes, il sito cambia nome in Mubi, proprio per distanziarsi da un’idea di cinema esclusiva: il cinema di qualità, a detta di Efe Cakarel, fondatore della piattaforma, non deve per forza essere cinema d’autore.

Mubi, che oggi è presente in più di centonovanta paesi, ha attraversato diverse fasi prima di diventare la piattaforma che conosciamo. Inizialmente il sito proponeva un abbonamento mensile per visionare gran parte dei contenuti, mentre altri erano fruibili gratuitamente. Nel 2012 il modello cambia, si passa ad un totale SVOD (Subscriptional Video On Demand) e l’aspetto curatoriale si intensifica: Mubi comincia a proporre un film al giorno, per un totale di trenta film in catalogo al mese. Le cose cambiano ulteriormente nel 2020, quando, in pieno lockdown, l’utilizzo delle piattaforme streaming conosce un’impennata senza precedenti. Pur continuando a consigliare il film giornaliero, Mubi, le cui sottoscrizioni aumentano vertiginosamente, amplia il proprio catalogo con centinaia di titoli in più. 

Sarebbe tuttavia riduttivo considerare Mubi unicamente dal punto di vista del suo servizio di streaming. Nel corso degli anni la compagnia ha consolidato la propria immagine di soggetto attivo in tutta la filiera cinematografica: Mubi, infatti, si occupa anche di produzione e distribuzione e negli ultimi anni molti film prodotti e/o distribuiti dall’azienda sono diventati delle vere hit tra il pubblico di appassionati. Un esempio recente di grande successo è Aftersun (Charlotte Wells, 2022), nominato come miglior film del 2022 dalla rivista “Sight and Sound”. Oltre alla produzione e alla distribuzione, Mubi porta avanti un’intensa attività di divulgazione cinematografica, attraverso la rivista Notebook e attraverso alcuni podcast prodotti a livello nazionale.

Proprio questa vocazione alla divulgazione e questa idea di cinema inteso come patrimonio culturale sono al centro di tante altre attività portate avanti dalla compagnia, come ad esempio l’abbonamento ridotto per studenti o le collaborazioni con istituzioni pubbliche e università. Un esempio è la recente collaborazione tra Mubi e l’Università di Bologna per l’organizzazione e la promozione di una rassegna cinematografica nel capoluogo emiliano. Operazioni di questo tipo ci fanno capire che non solo Mubi attribuisce grande importanza ad operazioni di alfabetizzazione al cinema – seppur sempre con il primario intento economico – ma anche che le sue attività si danno spesso ad un livello locale. Abbiamo già citato i podcast, che, come detto, vengono realizzati all’interno dei diversi paesi in cui opera Mubi. 

Ovviamente non si tratta di un caso diverso da quello di altri servizi analoghi: gli studi sulle piattaforme si concentrano frequentemente sulla loro dimensione transnazionale, in quanto oggetti di studio al tempo stesso locali e globali. Il catalogo di Mubi, ad esempio, varia di paese in paese, rendendo quindi la visione dei film un’esperienza essenzialmente locale; allo stesso tempo, però, la piattaforma presenta grande varietà per quanto riguarda la nazionalità delle pellicole, consentendo ai suoi utenti di vivere un’esperienza cinematografica cosmopolita. Rispetto ad altri servizi di streaming, però, Mubi può contare su un aspetto che la avvicina di più a piattaforme come You Tube, vale a dire la sua qualità intrinsecamente partecipativa, per la quale utenti di paesi diversi possono interagire, scambiarsi opinioni sui film e dialogare. Si crea quindi un asse di appassionati che supera i confini nazionali, che ricorda, per l’appunto, quanto avviene con You Tube e con l’interazione di utenti a livello globale. Mubi è quindi esemplare di come la cinefilia possa reinventarsi in linea con il contesto mediale convergente contemporaneo, diventando terreno di scambio a tutti gli effetti “glocale”.

 

Riferimenti bibliografici

J. C. Chalaby, Global streamers: Placing the transnational at the heart of TV culture, in “Journal of Digital Media & Policy”, Vol. 13 n. 2, 2022, pp. 223-241
M. Frey, MUBI and the Curation Model of Video on Demand, Palgrave Macmillan, Londra 2021
J. Hessler, Quality You Can’t Touch. Mubi Social, Platform Politics, and the Online Distribution of Art Cinema, in “The Velvet Light Trap”, n. 82, 2018, pp. 3 – 17
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