Sirens: il canto ammaliante di una dark comedy imperfetta
C’è qualcosa in Sirens che non torna. E non per difetto, ma per natura. La nuova miniserie Netflix sembra progettata per sfuggire alle etichette, oscillando tra generi e atmosfere con una grazia incerta ma seducente. È proprio in questo slittamento continuo che si annida il suo fascino più ambiguo: la bellezza di qualcosa che non si lascia afferrare del tutto.
La storia prende forma attorno a Devon, giovane donna razionale e disillusa, che si reca sull’isola privata di Port Haven per strappare la sorella Simone dal magnetismo ipnotico di Michaela Kell, enigmatica miliardaria dai modi affabili e il controllo assoluto. In quella villa opulenta, tra cocktail perfetti, piscine immacolate e conversazioni sospese, si consuma un fine settimana che è insieme confronto familiare, gioco psicologico e teatro di classe.
Sulla carta, Sirens potrebbe sembrare un thriller domestico, una satira sulle élite o un dramma familiare in salsa glossy. E infatti è tutto questo – ma non pienamente. Ogni episodio si muove in bilico tra ironia sottile e tensione latente, tra dialoghi brillanti e momenti volutamente teatrali. A tratti si ha la sensazione che ogni scena si diverta a ingannare lo spettatore sul proprio tono: sta ridendo o sta affondando? Sta giocando o sta minacciando? Lo sa, lei stessa?
L’eleganza visiva è innegabile. La fotografia valorizza ogni dettaglio – abiti, arredi, luce – come se fossimo su una passerella del potere. La regia è sorvegliata, composta, quasi complice del narcisismo dei personaggi. Ma è la scrittura a guidare il ritmo, attraverso dialoghi spesso acuminati, affilati, talvolta esibiti con un che di autocompiaciuto. Non mancano frasi a effetto, riflessioni sull’identità, il privilegio, il controllo. In alcuni momenti, però, la tensione si appiattisce sotto il peso dell’esposizione, come se la serie temesse di lasciare qualcosa sottinteso.
Le interpreti principali tengono insieme la macchina con carisma. Julianne Moore costruisce una Michaela algida e ambigua, sempre sospesa tra ospitalità e manipolazione. Meghann Fahy è una Devon stratificata, resistente ma non impermeabile. E Milly Alcock dà corpo a una Simone spaesata, tutta energia e fratture. È la loro triangolazione a far muovere il racconto, più che l’intreccio in sé.
In cinque episodi, la serie mantiene un ritmo compatto e scorrevole. Ma l’ultimo tratto accelera bruscamente, sacrificando ambiguità in favore di colpi di scena che rompono l’incantesimo. Alcuni snodi risultano caricati, come se il bisogno di concludere prevalesse sulla coerenza interna.
A ben vedere, Sirens solleva molte domande: sul potere, sulle sorellanze, sulle gabbie del privilegio. Ma raramente tenta di rispondere. I temi restano sullo sfondo, come decorazioni di un interno ben arredato. E forse è questa la sua scelta consapevole: offrirci una superficie così riflettente da restituirci solo la nostra immagine, non la loro verità.
Sirens è, in fondo, ciò che promette il titolo: un canto ammaliante, che seduce e destabilizza. Non ci porta in profondità, ma ci fa galleggiare in acque tiepide e inquietanti, dove tutto sembra possibile e niente davvero reale. Un esercizio di stile riuscito? Forse. Un viaggio coinvolgente? Anche. Ma soprattutto, un esperimento che non cerca certezze. E proprio per questo, riesce a lasciare il segno.