Boots: Sex Education in divisa (senza la scintilla)
Immaginate di essere un dirigente Netflix e di imbattervi in un memoir in cui l’autore racconta la propria esperienza come giovane uomo gay arruolato nei Marine negli anni ’90, quando l’omosessualità era ancora un tabù. Come potreste resistere alla tentazione di farne una serie?
In un’epoca in cui la parola d’ordine è inclusività, Boots parte da una storia vera – il memoir The Pink Marine di Greg Cope White – e la trasforma in un racconto di formazione ambientato nel mondo più etero e maschilista che esista: quello dell’esercito americano. A portarlo sullo schermo è Andy Parker, già co-executive producer di Tales of the City e Imposters, insieme a Sony Pictures Television. Parker stesso ha raccontato di essersi riconosciuto nel protagonista: “da ragazzo gay in un ambiente conservatore avevo pensato seriamente di unirmi ai Marines”.
Le premesse ci sono tutte per una serie potente: disciplina contro desiderio, forza contro fragilità, identità contro convenzioni. Peccato che Boots non riesca mai davvero a trovare il suo passo.
Il risultato è un Sex Education in divisa, ma senza la scintilla, con personaggi bidimensionali e un ritmo che fatica a ingranare. L’addestramento militare, che avrebbe potuto diventare metafora di crescita e autodeterminazione, è solo un pretesto per un racconto che preferisce non sporcarsi mai davvero le mani.
Là dove avrebbe potuto scavare nel conflitto tra accettazione e appartenenza, Boots si limita a compilare la checklist Netflix: dramma adolescenziale, buoni sentimenti, un paio di lacrime e via. Tutto molto corretto, nulla di memorabile.
Il finale aperto lascia intravedere una possibile seconda stagione, ma non basta a riscattare un prodotto che marcia con il pilota automatico. Boots è una di quelle serie che si guardano senza fastidio, ma anche senza coinvolgimento: perfetta per una serata pigra, coperta e cioccolata calda comprese. Ma niente più di questo.