Expats: sfumature di maternità

 
 

All’ondata degli ultimi anni che vede attori e registi asiatici – o di origine – arrivare e Hollywood e riscuotere enormi successi, non si è piegato solo il cinema, ma anche la serialità, alla ricerca di un’identità che renda l’industria stessa un melting pot di idee, culture, approcci e sguardi.  Lulu Wang, cinese immigrata da bambina negli Stati Uniti, ha fatto del cinema il suo mestiere e nel 2019 ha realizzato The Farewell – Una bugia buona, film che dalla presentazione al Sundance Film Festival è arrivato fino ai Golden Globe. Ciò che senza dubbio interessa raccontare a Wang sono il senso di estraneità e i legami familiari al femminile, lo dimostra nel suo primo film e ancora nella recentissima serie approdata su Prime Video, Expats.

Fin dal titolo è chiaro che la condizione dei protagonisti sia quella di stranieri in un mondo che li accoglie ma che non corrisponde pienamente a  loro. Siamo a Hong Kong nel 2014, all’epoca delle rivolte pacifiche per il suffragio universale, la vicenda ruota attorno a tre donne: Margaret Woo, (Nicole Kidman), moglie di un uomo d’affari in ascesa che nel caos del mercato centrale della città ha perso il più piccolo dei suoi tre figli, Gus, affidato a una giovane e inesperta babysitter incontrata per caso, Mercy (Ji-young Yoo), l'improvvisata bambinaia che vive con il senso di colpa per la scomparsa del bambino è una giovane americana di origine coreana che si è trasferita a Hong Kong per trovare la  sua strada. E infine Hilary Starr (Sarayu Rao), donna in carriera proveniente da una famiglia indiana, migliore amica di Margaret, è sposata con l’avvocato David (Jack Huston), con cui porta avanti una relazione che si sta visibilmente sfaldando a causa dell’assenza di figli.

Cosa accomuna queste tre donne? Il senso di inadeguatezza e di impotenza, ma anche il dover affrontare in maniere completamente differenti la maternità. Margaret, seppur abituata ad affidare i figli e farli crescere alle domestiche, vive il vuoto di una perdita a cui non ha saputo porre rimedio. Mentre il marito Clarke spera di ricevere la notizia della morte del bambino, per poter chiudere il capitolo più doloroso della sua vita, lei sopravvive grazie alla speranza e alla ossessiva e paranoica ricerca di indizi e piste alternative. Hilary che è cresciuta con il sogno e la prospettiva di una brillante carriera, non è pronta, e tanto meno interessata, alla maternità; sente però addosso il peso e lo sguardo di una società che la vorrebbe felice madre di una prole da mostrare nella buona società. La sua determinazione è altrettanto forte, non cede neppure alle richieste del marito, facendogli credere che sia lui ad essere sterile, mentre lei continua a prendere la pillola. Infine Mercy, già spaventata e segnata dalla maledizione lanciatale da bambina da una chiromante che la vuole irreparabilmente sfortunata, oltre a sentirsi colpevole per la sparizione di Gus, si scopre ad aspettare un figlio da quell’uomo creduto sterile.

Le vicende, i dolori e le speranze di tre americane sole in un mondo che non le considera vengono intrecciate in maniera sempre più salda dal montaggio, che vorrebbe essere tanto espediente linguistico quanto simbolico. Vorrebbe, perché il cordone – ombelicale – con cui Wang vorrebbe unire personaggi e pubblico è debole. Tutto ciò che dovrebbe essere emotivo e profondo diventa patetico e patinato, lontano, poco credibile, seppur denso di verosimiglianza. Wang, totalmente americana nella sua scelta di voler mettere troppa carne al fuoco, non dimentica di inserire flebili richiami alla situazione politica di Hong Kong  e a quella precaria e dimenticata delle donne che per gli espatriati lavorano: trattate con finta amorevolezza, illuse e sfruttate quanto basta per ricordare loro quanto siano inferiori. Con la paura di lasciare spazi vuoti – in un vuoto di empatia che il pubblico percepisce lungo l’intero corso di sei episodi noiosi – la regista abbonda di elementi sullo sfondo, tra questi vi è anche un’alluvione che costringe i personaggi a riflettere, chiusi nelle case, proprie o d’adozione, su loro stessi, a prendere decisioni che potrebbero essere definitive ma che non lo sono mai davvero.

Margaret, soprattutto, cambia rotte e si contraddice più e più volte, la sua poca lucidità diviene quasi una chiave di lettura di un prodotto che ha buonissime possibilità, ma le sfrutta nella direzione sbagliata, mai in sottrazione, piuttosto girando su se stessa alla ricerca di una risposta che non esiste, di un happy ending che non è mai davvero possibile. Il caos del mercato di Hong Kong equivale alla scarsa messa a fuoco di Expats, un prodotto debole che può far forza solo sulla presenza di una star come Nicole Kidman che, seppur costantemente sul set di nuovi progetti, dopo Big Little Lies, raramente ha centrato l’obiettivo. La sua Margaret è lo stampino e la ripetizione di tutte le madri sofferenti e disperate che dai tempi di The Others hanno costellato la sua carriera. In suo favore va sottolineata la disponibilità e l’interesse nel prendere parte a progetti diretti da giovani registi o da nomi non canonicamente classificabili nell’industria hollywoodiana. Per Lulu Wang, classe 1983, che qualche buona intuizione la dissemina qua e là, resta la speranza di trovare la propria strada, metterla a fuoco ed imparare a prendere le distanze da ciò che il cinema “che conta” vorrebbe.

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