Golda: la nonna di ferro che fumava guerra

Disponibile dall’11 giugno su Prime Video Italia, Golda arriva in streaming in un momento in cui la realtà bussa violenta alle porte della Storia. Il film, presentato alla Berlinale 2023, racconta – e forse celebra – la figura di Golda Meir, prima donna a ricoprire il ruolo di Primo Ministro israeliano, donna di potere con l’apparenza di una nonna gentile e l’anima temprata dal fuoco di un’ideologia granitica.

La vediamo nel 1973, pochi anni prima della morte e pochi giorni prima dell’attacco a sorpresa di Egitto e Siria che scatenerà la Guerra del Kippur. È malata, tossisce, fuma costantemente – il fumo le esce dalle labbra come nebbia da un campo di battaglia. Quella nebbia, metaforica e visiva, si confonde con l’opacità delle stanze del potere in cui si decidono le vite e le morti di migliaia di giovani. Golda non trema. A volte sbaglia, a volte vacilla, ma non si pente. La sua determinazione incarna tanto la lucidità strategica quanto l’inettitudine nel prevedere l’attacco. Ma anche questo fa parte del racconto.

Il film, diretto da Guy Nattiv con misura e rigore, sembra più interessato a umanizzare che a interrogare. La sceneggiatura evita l’indagine ambigua, e la complessità morale affiora solo in controluce. Persino l’Operazione Collera di Dio – la rappresaglia segreta lanciata da Meir dopo il Massacro di Monaco nel 1972 – è appena accennata, quasi nascosta, come se disturbasse la linea del racconto. Ed è un’omissione pesante, perché taglia fuori uno degli aspetti più controversi del suo mandato.

Helen Mirren, irriconoscibile sotto il trucco prostetico, offre una performance intensa, costruita più sul non detto che sulle battute: silenzi, occhiate, piccoli gesti. Il suo corpo affaticato diventa simbolo di una resilienza che si vorrebbe esemplare. Ma la sensazione è che la complessità venga levigata per trasformare Golda in icona, più che figura storica a tutto tondo.

Un momento spicca: l’incontro domestico con Henry Kissinger (interpretato da Liev Schreiber), ospite nella cucina di Golda. Il tono è familiare, quasi materno. Ma in un lampo, il segretario di Stato americano le ricorda che la guerra ha un prezzo, e che il popolo americano “non tollererà di pagarne uno economico troppo alto”. È forse l’unico istante in cui Golda si apre davvero all’ambiguità del potere, all’ipocrisia diplomatica, alla crudeltà mascherata da strategia.

Ciò che colpisce – forse più del film stesso – è ciò che resta fuori campo: il popolo palestinese non esiste, il trauma dell’occupazione è silente, l’orizzonte geopolitico ridotto a un triangolo Israele-Egitto-USA. È una scelta narrativa chiara, ma oggi, in un 2025 attraversato da uno dei momenti più atroci del conflitto israelo-palestinese, questa omissione pesa come una dichiarazione.

Golda è un ritratto intimo, ben recitato e ben confezionato. Ma è anche un film che sembra voler rendere la sua protagonista più accettabile agli occhi della Storia, evitando di mostrarne le ombre più profonde. In tempi come questi, anche i silenzi raccontano molto. E a volte, fanno più rumore delle parole.

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