Highest 2 Lowest, Kurosawa, Spike Lee e l’anatomia di un rapimento tra Giappone e Brooklyn
Akira Kurosawa, il grande maestro del cinema giapponese, forse il più noto dei cineasti dell’Estremo Oriente è stato da sempre oggetto di felice “saccheggio” da parte dell’universo del Cinema americano, e non solo. Forse per le modalità di messa in scena, forse per il suo rifarsi ad alcuni canoni narrativi non propriamente Far East; infatti su tutti svettano i riferimenti shakespeariani, per la stessa ammissione del regista di Rashomon. Come non citare in questa sede il celebre “furto” da parte di Un pugno di dollari di Sergio Leone, tematicamente (ma non solo) ripreso a piene mani da Yojimbo (1961) di cui seguì una vera e propria causa legale con il team di produzione di Kurosawa, ma nel tempo ci furono ulteriori esempi più felici, come i vari remake in salsa belligerante e occidentalizzata de I sette samurai (1954) tra cui i due western hollywoodiani I magnifici sette (1960, John Sturges e 2016, Antoine Fuqua. Insomma, il cinema di Akira Kurosawa non è affatto morto e sepolto, e questo viene ben dimostrato dall’ultima fatica di Spike Lee, Highest 2 Lowest (Apple TV+) che recupera lo story concept e parte del plot di Tengoku to jigoku (tit. ital. Anatomia di un rapimento, 1963 disponibile in streaming su Amazon Prime Video), e riversa il tutto fra le strade di Brooklyn dove a farla da padrone è Mr. David King (Denzel Washington), tycoon dell’industria musicale e “l’uomo con le migliori orecchie del music business”, dove invece nel film di Kurosawa era Toshiro Mifune (Kingo Gondo) ad essere al centro della vicenda con la sua azienda di calzature National Shoes. Il titolo inglese del film di Kurosawa può ulteriormente aiutare a raccontare i parallelismi questa vicenda, ossia High and Low, che si avvicina anche letteralmente, intrecciando i fili con l’ultimo “Spike Lee Joint”, come è solito il regista newyorkese firmarsi nei suoi titoli di testa. Al centro di entrambe le opere, di Kurosawa e Lee, ritroviamo un enorme dilemma morale, un uomo ai vertici della fama che in medias res è pronto ad attraversare una operazione di estremo rischio finanziario, e naturalmente a complicare le cose è il caso, nel frangente di entrambe le opere filmiche rappresentato da un rapimento, ma non di una persona qualsiasi ma apparentemente del figlio del protagonista. E come potrete immaginare, cari lettori, per riscattare questo tipo di rapimento, che si tratti di un bambino in età infantile, come nel caso del film di Kurosawa o un teenager con la passione per il basket, nel caso di Spike Lee, è necessaria una barca di denaro. Ma il dilemma si complica perché il rapitore fa uno sbaglio, e non rapisce la persona giusta. E dunque cosa dovrebbe fare Mr. King (e anche l’antenato giapponese, Mr. Gondo?), salvare una vita e con questa anche la sua reputazione, tramutandosi in un eroe nazionale, oppure portare a termine l’operazione finanziaria che darà una svolta netta alla propria vita non curandosi delle conseguenze? Ovviamente eviterò di darvi ulteriori dettagli sui punti nodali della trama, anzi delle due trame perché vi consiglio spassionatamente di recuperare la visione anche dell’antecedente kurosawiano.
Voglio parlarvi per un momento, invece, del riadattamento transculturale che opera Spike Lee in questo suo ultimo lavoro: tutti i sintagmi del personaggio pubblico Lee e i suoi segni distintivi in Highest 2 Lowest esplodono, dall’imprescindibile New York dei Knicks e degli Yankees, alla blackness nella sua espressione culturale più pura, fioccano infatti citazioni e rappresentazioni del mondo dell’arte, della musica e della letteratura fra Toni Morrison, Jean- Michel Basquiat e James Brown e Aretha Franklin verso i quali Spike Lee dedica inquadrature, stacchi musicali o semplici accenni, come se fosse una bellissima black symphony. Il ritmo è serratissimo, come sempre. Invece, il distanziamento maggiore dall’originale giapponese, di cui tuttavia il film di Lee conserva i maggiori snodi di trama, è riguardo lo sviluppo dell’investigazione: nella seconda parte il film di Kurosawa diviene un noir che mette al centro le figure della polizia a discapito del suo iniziale protagonista, mentre in Highest 2 Lowest è Denzel Washington a giocarsi per intero la partita, rinterpretando il ruolo e la tinta che gli calza meglio, quella del revenge movie.
Concludendo, le due opere filmiche rappresentano un unicum che mettono di fronte agli spettatori un forte dilemma morale ed è interessante come questo viene veicolato diversamente in due culture dai valori e dalle conquiste sociale decisamente distanti: esemplare è la rappresentazione della figura dell’autista del ricco protagonista, dove nel caso di Aoki (Yutaka Sada) nel film di Kurosawa è una persona servile fino alla sua espressione più estrema, uno specchio della società classista e piramidale giapponese, mentre in Highest 2 Lowest il personaggio di Paul Christopher, interpretato dal bravissimo Jeffrey Wright, è legato a David King da un rapporto di amicizia fraterno, hanno condiviso la giovinezza fra le strade di Harlem e quello che sono oggi, entrambi, se lo sono guadagnati sopravvivendo “street life”.
A colpi di rap, di influenze dei social network, di post su Instagram e di streaming musicale, nonché di influsso dell’AI nell’industria della musica, il film di Lee fa i conti, come logico che sia riguardando a ritroso la sua filmografia, con tutte le dinamiche paradossali di un sistema, quello della musica ma in generale della nostra società contemporanea, che ha smarrito la sua voce vera e quella del sacrificio individuale per appoggiarsi a comodità di plastica capaci solo di snaturare e generare profitto. Questo emergeva già nel film di Kurosawa come evidenziava Mr. Gondo quando gli altri dirigenti della sua compagnia di calzature gli facevano notare come alcune nuove scarpe da loro ideate potevano abbattere i costi, però questo a discapito della qualità e della profondità di un prodotto, dunque culturale o materiale che sia. Entrambe le opere cercano di aprire una breccia e sfidare a viso aperto, criticando senza mezze misure le politiche del mero profitto che mette alla berlina l’esperienza umana, e in questo nostro strano mondo auspichiamo la presenza di “sovrani illuminati” come David King. Il personaggio, interpretato da un regale Denzel Washington, nonostante sia un privilegiato è anche e soprattutto un virtuoso, ed è bellissimo quando lo vediamo misurarsi ed emozionarsi nella cosa a cui ha dedicato davvero la sua intera vita, ovvero la musica, la vera musica che ritroviamo nel finale. Qui, mentre provina nella sua enorme casa su un grattacielo la cantante Sula (Aiyana-Lee), che già nel suo nome per esteso “Sula C Sing” (C sta per “Can” dunque “Sula può cantare”), è iscritto il destino e la volontà del futuro del magnate: ritrovarsi e ricostruire quelle emozioni su scala famigliare che solo l’arte sa dare e che il profitto, i dischi d’oro e l’influenza globale hanno annebbiato. Infine, posso ben dire che il filo conduttore di questo particolarissimo, mutaforme e rimodernizzato film che si traveste da thriller-crime per accogliere tanti altri significati è proprio dentro il titolo, Highest 2 Lowest, che è anche il titolo della canzone che canta Sula quella mattina sul grattacielo del prodigioso David King. È una canzone e un brano di rinascita e di riscoperta, senza effetti e amplificata da tanti strumenti pian piano che cresce di misura, incitata dal “Come on, come on!” di Mr. King. Così è anche per me, lo stupore, la meraviglia, la sorpresa, ogni volta che assisto alle prove cinematografiche di Spike Lee, con un ringraziamento appassionato al grande e indimenticabile Akira Kurosawa.