Black Rabbit: la serie Netflix che raccoglie l’eredità di Ozark
Quando una serie di successo finisce, specialmente una che portava premi alla piattaforma o al canale di appartenenza, si cerca subito di crearne in laboratorio un successore spirituale che possa godere dell’onda lunga di quell’attenzione. Ozark, nel corso delle sue quattro stagioni, ha portato a casa Netflix 45 nomination agli Emmy (e solo quattro statuette effettive) e questo è bastato per renderla un vuoto da riempire una volta terminata, ricercando un’altra serie che potesse essere un “prestige drama” capace di esplorare delle tragiche e autodistruttive dinamiche famigliari.
Il risultato è Black Rabbit, serie ideata da Zach Baylin e Kate Susman in uscita sulla grande N rossa il 18 settembre dopo la première al Toronto International Film Festival, che con Ozark ha diversi punti in comune: Jason Bateman sia come protagonista che alla regia, Laura Linney qui solo dietro la macchina da presa, i colori spenti, grandi anzi grandissimi e distruttivi problemi con soldi e sostanze. Black Rabbit è un thriller che prende a grandi mani da uno dei miti fondatori del nostro immaginario collettivo, quello di Adamo e Abele, per parlare di due fratelli che nonostante il sangue appaiono come due perfetti sconosciuti, figli di un destino che li ha relegati ad angoli opposti della vita.
Jake Friedken (Jude Law) gestisce da tempo il Black Rabbit, che per lui non è solo un ristorante, ma un ambiente famigliare dove gustare il miglior burger di tutta New York. Il successo che sta ottenendo non gli basta, vorrebbe riuscire a guadagnare soldi senza sudare o sottostare ai ritmi frenetici che la sua vita richiede. In un simile momento di trasformazione, torna l’unica forza inamovibile della sua vita: il fratello Vince (Jason Bateman), nonché cofondatore del locale (i primi episodi infatti richiamano alla mente The Bear), è uscito dal carcere e non pare aver imparato nessuna lezione, reinserendosi subito in quell’ambiente che lo aveva distrutto anni prima. Jake prova a dargli una seconda opportunità, assumendolo come barman, senza sapere che tutto ciò che conosce sta per crollare.
Black Rabbit sceglie di mostrare fin dal principio il punto definitivo di rottura - l’ingresso di uomini armati all’interno del locale - e poi di riavvolgere il nastro e costruire piano un castello di carte, fatto di litigi e di piccoli e grandi inganni. Non è un crescendo, ma piuttosto una giostra ripetitiva di conflitti e di ricerche di compromessi che non potranno mai soddisfare entrambi i fratelli. Il risultato è una serie estenuante con personaggi confusi e in continua autocontraddizione (o forse gli interpreti sbagliati), che non offre altro se non uno sguardo negli abissi non reciprocato. Più ci si avvicina alla fine degli otto episodi, nonostante la regia intrigante di Justin Kurzel (il suo ultimo film The Order vedeva proprio protagonista Jude Law), più è urgente la domanda “quante altre miniserie dovremo vedere che potevano essere benissimo dei film di massimo due ore?”. Black Rabbit non è il primo colpevole di questo trend della serialità contemporanea, ma negli ultimi mesi ne è forse il maggior esponente.