A House of Dynamite: il peso della scelta

Ho visto A House of Dynamite di Kathryn Bigelow in anteprima mondiale a Venezia e non esito a dire che è il tipo di cinema americano che adoro: quello che non parte mai da un concetto già confezionato, ma che lascia che sia il film stesso, con la sua materia viva, a generare le domande. È un cinema che rifiuta la predica e l’allegoria facile, e che invece ci scaraventa dentro la vertigine del dubbio.

Bigelow ci tiene in sospeso per oltre due ore senza mai mostrarci l’“evento” in sé. Non serve, perché la vera esplosione è interiore: quella che avviene quando siamo costretti a seguire i personaggi chiusi in stanze di crisi, a moltiplicare i punti di vista, a scoprire che ogni prospettiva porta a una risposta diversa, ma nessuna definitiva. È un cinema che ci costringe a chiedere a noi stessi: cosa faremmo al loro posto, quando il tempo stringe e ogni scelta è sbagliata?

Il film diventa allora un esercizio di tensione morale. Non c’è spazio per l’eroismo da blockbuster, non c’è nemmeno quella rassicurante illusione che ci sia “la scelta giusta”. Idris Elba, nei panni del presidente, incarna perfettamente l’impossibilità della politica quando è privata del suo tempo naturale. Non può più mediare, non può più rimandare: deve decidere. E in quel momento la politica si trasforma in una condanna, una trappola, un atto di violenza inevitabile.

Quello che colpisce è come Bigelow riesca a dare forma al terrore senza mai mostrarlo. L’incubo nucleare resta fuori campo, eppure incombe, cresce, diventa la vera presenza del film. È un cinema che parla con le ellissi, con i silenzi, con il peso delle parole che precedono una decisione irreversibile.

A House of Dynamite non è un film che offre risposte, ma un film che ci lascia con la vertigine delle domande. Ci mostra quanto sia fragile l’illusione delle procedure, quanto sia umano l’errore, quanto sia insopportabile il peso della responsabilità quando tutto è già compromesso. Non consola, non rassicura, non si accontenta di intrattenere: ci mette davanti all’abisso e ci chiede di guardarci dentro.

Ed è proprio per questo che è un grande film. Perché ti accompagna fuori dalla sala senza darti pace, ma con la sensazione di aver toccato da vicino ciò che temiamo di più e che pure ci riguarda da sempre. A House of Dynamite è Bigelow al massimo della sua potenza: un cinema che non accetta scorciatoie, che non ha paura del buio, e che ci ricorda che certe domande non hanno risposta.

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