K-pop Demon Hunters – Quando le idol diventano guerriere fantasy su Netflix

Con K-pop Demon Hunters, Sony Pictures Animation e Netflix hanno creato un’opera ambiziosa. L’intento è quello di fondere il linguaggio del K-pop con il fantasy d’azione, facendo delle idol non solo icone pop, ma vere e proprie guerriere, alla Marvel, con tanto di armi scintillanti. Loro devono difendere il mondo dai demoni e dal loro Re.

Il film costruisce la sua mitologia intorno all’Honmoon Dorato, una barriera che separa gli esseri umani da Gwi-Ma, il re dei demoni. Le Huntrix, ovvero la ribelle Mira, la dolce rapper Zoey, la Regina Rumi, sono le cacciatrici di questa generazione. Un trio di ragazze che conducono una doppia vita, un po’ Buffy un po’ Hannah Montana. Giovani, belle e agguerrite vivono la propria esistenza di normali ragazze quando si camuffano con cappellini e grossi occhiali da sole, ma abbracciando la loro vita da idol. Infatti, sono sempre felici di essere riconosciute e di poter incontrare i loro fan, ma diventano delle armi viventi sia sul palco sia quando i demoni le attaccano. K-pop Demon Hunters gioca appunto sulla doppia natura dell’idol che è da un lato intrattenitore di massa e al tempo stesso detiene un potere simbolico sacro, l’affetto e la devozione dei fan.

Nonostante i personaggi siano caratterizzati con tratti immediatamente riconoscibili, la scrittura resta legata a stereotipi funzionali più che a un reale approfondimento psicologico. Rumi, ad esempio, è l’erede di una star morta prematuramente e di un demone, un segreto che apre un conflitto interiore interessante, anche se trattato con leggerezza, quasi a non voler incrinare l’immagine e appesantirla di tonalità troppo scure. Delle storie personali di Mira e di Zoey viene accennato qualcosa solo inizialmente per poi non trovare ulteriori linee di approfondimento, che avrebbero probabilmente aiutato lo spettatore ad empatizzare anche con loro. La loro amicizia è principalmente raccontata verbalmente, ma non viene mostrata. Inoltre, la contrapposizione tra le Huntrix e la “boy band di demoni” guidata da Jinu, personaggio tormentato, ma non completamente sviluppato, si perde poi nelle sfide musicali e in colpi di scena prevedibili. Tuttavia, l’intreccio tra teen drama, love story e mitologia mantiene una certa coerenza interna e funziona in relazione al pubblico di riferimento. Non cerca di compiacere tutti, ma resta ancorato al proprio target con una chiarezza di intenti che, pur limitandone l’ambizione, ne può rafforzare l’efficacia. Ciò che manca è una vera memorabilità dei personaggi. L’empatia si concentra quasi esclusivamente sulla coppia principale, mentre gli altri rimangono abbozzati, privi di quel carisma che potrebbe alimentare il chiacchiericcio e l’affezione tipici di un film rivolto a un pubblico preadolescente e adolescente.

L’animazione del film alterna due registri, passa dai toni caldi e cupi che accompagnano i demoni e i momenti fuori dalla scena (sabbia, marrone bambù, ombre dense) a colori accesi, quasi fluorescenti, degli show musicali e della città ultramoderna. In questo contrasto K-pop Demon Hunters trova la sua identità, molto più che nella sceneggiatura. Merita attenzione anche l’uso della tradizione iconografica coreana, come, per esempio, la tigre e la gazza dei dipinti minhwa dell’epoca Joseon, riprese e trasfigurate in personaggi spalla, e nei design dei demoni. Questo radica il film in un immaginario locale evitando che il k-pop resti un semplice “esotismo” per il pubblico globale.

K-pop Demon Hunters non riesce a distinguersi come racconto di formazione fantasy, ma funziona bene come spettacolo visivo, canoro ed anche come dichiarazione d’amore per la cultura coreana, con inserti di cibo, arredamento e gestualità quotidiane che restituiscono un contesto riconoscibile.

Avanti
Avanti

Il tempo che ci vuole - Tributo e ringraziamento per Fabrizio Gifuni parte 2