La storia: l’operazione di Archibugi non convince

 
 

Nel 2024 La storia di Elsa Morante compie cinquant’anni.

La RAI rende omaggio a questo capolavoro della letteratura italiana con una serie in otto puntate diretta da Francesca Archibugi. L’operazione è degna di considerazione: il romanzo di Morante merita sempre un tributo e di sicuro non è superfluo ricordare al pubblico, nella situazione sociale e politica attuale, certi momenti del nostro passato.

A frapporsi tra l’intenzione e la buona riuscita, tuttavia, sussistono due ordini di fattori. Il primo è di natura contingente, il secondo di natura immanente.

Già ad un primo livello, la struttura narrativa della serie fatica a stare in piedi. Troppe lungaggini (forse mirate a valorizzare le performance attoriali) rallentano uno sviluppo che da scorrevole si fa accidentato, penalizzato da un montaggio che talvolta manifesta un’asprezza incoerente con la tensione delle immagini, talaltra sfrutta le potenzialità del flashback o del flashforward con esiti altalenanti. Ad esempio, la duplice morte di Nino (oltretutto mai mostrata nella sua interezza) appare superflua dal punto di vista del racconto e si rivela giocata sulla solleticazione del coinvolgimento spettatoriale, coinvolgimento che in generale fatica ad essere raggiunto, vuoi per le scenografie non sempre convincenti, gli arredamenti non sempre accurati, le prove attoriali raramente all’altezza, la tensione drammatica altrettanto raramente costruita e gestita.

Coinvolgimento che, tuttavia, è reclamato in modo diretto e intelligentemente provocatorio proprio nella prima sequenza, quando la madre di Ida afferma – sguardo in macchina – “Tu sei ebrea”, chiamando direttamente in causa lo spettatore. Non si vuole dunque negare la presenza di momenti riusciti, alcuni davvero alti. La passeggiata nel ghetto del quinto episodio, con la visita alla casa della famiglia Efrati, è un momento di rara intensità, in cui ogni elemento della messa in scena (regia, fotografia, sonoro, interpretazione di Jasmine Trinca, montaggio) è coerente e bilanciato. La sequenza della nascita di Useppe è davvero molto forte, una delle poche in cui si percepisce la disperazione di una condanna all’infelicità. Trinca riesce qui a dare un’anima alla sua Ida, sempre dimessa e piegata dalla vita (come dovrebbe essere, è vero, ma se in quasi tutta la serie l’attrice pare aver trovato una modalità recitativa da praticare in modo anonimo e meccanico, qui si percepisce una decisa convinzione). Altrettanto apprezzabile è la sua prova attoriale quando si trova ad affrontare la morte di Nino nel settimo episodio: una scena struggente e ben costruita. Allargando lo sguardo agli altri membri del cast, bisogna purtroppo constatare il mediocre livello della recitazione: eccezion fatta per Valerio Mastandrea (senza guizzi, ma sempre in parte) e per una sorprendente Asia Argento, a spiccare sono i comprimari o i personaggi secondari. La signora Filumena di Antonella Attili o la figlia Annita interpretata da Ludovica Francesconi, o ancora la merciaia Celeste (Anna Ferruzzo) o la Vilma di Giselda Volodi sanno illuminare le loro scene con una naturalezza e una vivacità delle quali difettano gli altri attori principali (Lorenzo Zurzolo nei panni di Davide, Francesco Zenga in quelli di Nino e persino Elio Germano che, dopo un ingresso trionfale, è sempre sopra le righe, forse a causa del ringiovanimento del personaggio di Eppetondo avvenuto in fase di sceneggiatura). Apprezzabile resta tuttavia il lavoro sul trucco per invecchiare i personaggi con l’avanzare della storia.

Se è vero che – come dichiarato dalla regista in un’intervista inclusa nel backstage pubblicato su RaiPlay – Morante scrive in modo già visivo, curando nel dettaglio costumi, ambienti, luci e offrendo a un regista o a un direttore della fotografia (ma anche allo stesso lettore) una materializzazione mentale del suo racconto, è altrettanto vero che – sempre riprendendo le parole di Archibugi – alla base della trasposizione ci deve essere un progetto narrativo. E il problema qui è duplice: da un lato tale progetto è così presente da offuscare il proprio contenuto; dall’altro esso resta confinato nell’ambito delle ipotesi, delle potenzialità. La trasposizione del romanzo è piana, talvolta piatta, strutturata con una cadenza episodica che ora comprime alcuni eventi ora ne dilata altri, dando l’impressione di dover riempire – rendendo palese l’adattamento del contenuto alla forma – delle precostituite caselle non solo formali (gli episodi, le sequenze pre-sigla) bensì concettuali. È chiaro come un tale progetto narrativo sia quasi didattico, un’illustrazione didascalica della fabula di Morante avente il nobilissimo scopo di riproporre un messaggio e una riflessione storica importantissimi. Tuttavia, romanzo alla mano e occhi allo schermo, emerge la non traducibilità in immagini dello spirito di un racconto profondo e privo di retorica che vuole portare all’attenzione di tutti (memorabile la scelta di Morante di far pubblicare la sua opera in edizione tascabile brossurata, ovvero alla portata di chiunque) “uno scandalo che dura da diecimila anni” (questo il sottotitolo originale del libro). Dalla trasposizione di Archibugi raramente emana questo macro-contesto di Storia: forse soltanto nell’incipit (grazie alla presenza della madre), nei sogni di Ida (il cumulo di scarpe dei campi di concentramento) e nella sequenza sopra citata della visita a casa Efrati. Ricordiamo che nel libro, ogni sezione è introdotta da un breve riassunto degli eventi storici relativi all’anno o agli anni che sono affrontati dalla narrazione, contribuendo a rendere manifesta la lettura della storia di Ida come inserita in un contesto globale che riguarda uno spazio e un tempo dai confini allargati rispetto alle vicende dei personaggi.

Potremmo prendere le parole di Elio Germano e di Jasmine Trinca come paradigmatiche della visione di questa trasposizione della Storia: mentre la protagonista definisce Ida “una donna che difficilmente lascia il segno del suo passaggio nella Storia, una donna che subisce la vita” (offrendo quindi una chiave di lettura corrispondente alla sua recitazione), per l’attore che interpreta il personaggio di Giuseppe Cucchiarelli “la storia di Ida è una delle migliaia di storie personali che fanno la Storia”. In questa visione, che appare a chi scrive corretta ma incompleta, l’attenzione dello sguardo è indirizzata all’individualità di Ida; nella prosa di Morante Ida viene invece eletta a cassa di risonanza dei traumi della Storia, una sorta di archetipo della Storia che si frantuma in mille rivoli nelle varie individualità. Questo non è in contraddizione con l’approfondimento psicologico della protagonista che la penna della scrittrice romana attua pagina dopo pagina, sviscerandone ogni recondito anfratto mentale e caratteriale. Invece, la Ida di Archibugi appare senza alcuna tridimensionalità, sempre ripiegata sulla protezione dei suoi figli e senza relazione (se non quella di vittima) con le circostanze della Storia. Ciò che manca è la percezione, da parte di Ida, della Storia “come le spire multiple di un assassinio interminabile”. Non che essa emergesse nella versione del 1986 diretta da Luigi Comencini (con la quale è d’obbligo un confronto, senza ambire per forza a stabilire un primato tra le due), ma la regia di Comencini e l’interpretazione di Claudia Cardinale nei panni di Ida erano riusciti ad avvolgere la vicenda in un alone di poesia e di mistero.

La celeste corrispondenza d’amorosi sensi tra i vivi e i defunti della Storia, che percorre sottotraccia tutto il libro di Morante ed emerge scandalosamente in più passaggi (si ricordi che alla sua uscita il romanzo fu assai divisivo nella ricezione da parte degli intellettuali del tempo), aleggia appena intorno all’Ida e all’Useppe di Comencini, ma è assente in quest’ultima rivisitazione.

Fa eccezione il finale, che nel tentativo di stemperare il dramma dei protagonisti, affida alla fidanzata di Nino e a sua figlia il compito di portare avanti la storia della famiglia Mancuso e, con essa, la Storia nel suo complesso, illustrando il fatto che – come riporta la didascalia giustamente messa a conclusione della serie e che conclude anche il romanzo – “la Storia continua…”.

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