I Sei racconti morali di Rohmer: il disprezzo e il desiderio.

 
 

L’immenso valore delle piattaforme d’essai è senza dubbio quello di riproporre autori e filmografie che passano di moda o cadono nel dimenticatoio, oltre che quello di dar rilievo ad opere che difficilmente avrebbero trovato una giusta e proficua collocazione in sala. Restando ancorati al primo dei due filoni citati, di recente è diventato disponibile su MUBI il più interessante e prezioso dei cicli di Eric Rohmer: Sei racconti morali (Six contes mouraux), adattamenti di racconti letterari che indagano i sentimenti e le scelte di protagonisti che agiscono in base a loro particolari convinzioni che possono o meno essere riviste alla fine di un percorso emotivo.

Un cortometraggio, un mediometraggio e quattro lungometraggi che stabiliscono i parametri dello stile e del tipo di narrazione del quotidiano e del possibile che interessano Rohmer. Sono storie semplici al centro delle quali vi è un uomo innamorato di una donna, quasi idealizzata, che vuole sposare, messo in crisi dalla conoscenza di una seduttrice che lo porta a dubitare di sé e a voler sperimentare nuovi desideri. I protagonisti, che sono sempre anche narratori onniscienti, danno vita a disamine sulle loro condizioni e sui loro desideri, sul disprezzo che in principio nutrono verso chi irrompe e destabilizza la loro prestabilita normalità.

Sono in principio studenti squattrinati come il protagonista de La fornaia di Monceau (1962),  che passando le sue giornate in strada per rivedere l’innamorata Sylvie si sfama con biscotti e dolci di una panetteria in cui lavora un giovane che gli fa gli occhi dolci, o come Bertrand, studente di legge che in La carriera di Suzanne (1963) passa il tempo con l’ex fidanzata del migliore amico per ottenere il beneficio di non dover pagare le consumazioni e i biglietti del cinema. Diventano, poi, uomini realizzati lavorativamente, attratti da donne più giovani, libere e soddisfatte delle loro condotta immorale (la Haydée de La collezionista, film del 1967), o di donne che, in quanto divorziate, come Maud in La mia notte con Maud (1969), rappresentano il pericolo del giudizio affilato di una società impicciona – questo, in fondo, non è altro che un timore costruito dagli uomini, così da poter restare ancorati a un qualche rassicurante principio morale.  Con gli ultimi due film, Il ginocchio di Claire (1970) e L’amore, il pomeriggio (1972) la crisi maschile si trasforma in un desiderio ossessivo per un simbolo di libertà o giovinezza che li allontana dal loro senso del dovere di uomini vicini alle nozze o alla nascita del secondo figlio.

Le donne oggetto di amore purissimo nei Sei racconti morali sono, dunque, più l’idea di un sentimento che l’incarnazione dello stesso: la loro assenza – non a caso si vedono sempre all’inizio e alla fine del lungometraggio – in principio destabilizza gli uomini, per poi lasciar loro campo libero per guardarsi attorno e far breccia con il loro istinto predatore su donne che vorrebbero vedere come loro vittime, conquiste e medaglie al valore da portare sul petto per ingannare la noia. Non vi è mai ingenuità, piuttosto un latente egoismo che finisce con il prevalere in maniera meschina e dirompente. In ogni caso, il cambio di rotta che sempre si conclude con il ritorno sulla strada principale, suscita un senso di conforto misto alla delusione di non essere arrivati fino in fondo o di essere stati scaricati da donne che, a loro volta, li hanno usati come divertissement o mezzo per affermare la propria indipendenza.

Le ambientazioni dei film di Rohmer, che siano le strade di Parigi e gli appartamenti da single o le ville al mare e sul lago, suscitano fascino e diventano riflessi della complessa personalità dei protagonisti che appartengono, con le loro aspirazioni, a quei luoghi chiassosi, trafficati, minimalisti, decadenti, ordinari: ognuno di essi corrisponde all’individuo che lo abita e di lui diventa la prigione sentimentale del momento di ribellione emotiva. Nell’intento di esplicitare il sentire umano, combattuto e imprevedibile, il regista francese con la sua macchina da presa indugia sui volti, le mani, gli sguardi dei personaggi, rende le parti del corpo, insieme ai pochi oggetti di valore – narrativo – veicoli di una muta seduzione che le parole non sanno esprimere – perché troppo artificiosa o perché nel profondo desiderata.

Attorno ad una struttura costruita su sentimenti e desideri, Rohmer trova lo spazio e il tempo per snocciolare riflessioni filosofiche sui temi caldi del suo tempo: la bellezza, il cambiamento dei canoni di essa, il valore del matrimonio e delle fughe d’amore, l’importanza della religione, del credere e del praticare. Le discussioni che scaturiscono dall’affrontare, seppur brevemente, questi argomenti, si muovono tra l’etico e il morale mostrando come essi non sempre – quasi mai – coincidano.  Il pensiero umano è mutevole, privo di certezze assolute: nei Sei racconti morali chi si incaponisce nel sostenere una tesi, viene sempre smentito – anche per poco – ed è dunque costretto a rivalutare i propri parametri di giudizio e a scontrarsi con i propri svariati stati dell’essere. Il grande valore, e sommo pregio, di questo primo ciclo cinematografico di Rohmer sta nel suo articolato e vastissimo contenuto, celato sotto le vesti di un qualunque triangolo amoroso. Proprio nell’analisi del comune, del quotidiano e della sua imprevedibilità possono emergere le contraddizioni dell’uomo e del suo fare pensante, proprio dalla realtà, beffarda e meschina, nascono le alternative che danno colore e mettono alla prova, risvegliando dal torpore l’essere umano che si crede perfetto, che vive nella sicurezza di una convinzione che non ha mai analizzato e decostruito.

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