Skinamarink: il buio e gli spazi liminali

 
 

Due bambini si svegliano nel cuore della notte: i genitori sono scomparsi. Le cose si muovono lente, piane e silenziose, la casa con il passare del tempo cambia forma, le porte scompaiono, le finestre si spostano, mentre una voce parla con i due fratelli in totale smarrimento.

Basta questo a spiegare Skinamarink, esordio del canadese Kyle Edward Ball – disponibile da qualche mese in streaming in Italia (canale Midnight Factory su Prime) – diventato in pochissimo tempo un piccolo cult tra gli appassionati di horror.

L’esordio segue una parabola ormai classica: un corto pubblicato su YouTube, un piccolo successo e poi un film che espande temi e idee. Seppure in queste operazioni sia molto comune lo snaturamento del progetto originario, qui l’impostazione riesce a rimanere puramente concettuale: una casa di notte, tante inquadrature a infrarossi (non sono camere diegetiche, sono punti di vista quasi onirici, ma pur sempre tecnologicamente determinati), movimenti a vuoto, due bambini soli e un assonnato approccio sonnambulo in continua relazione tra incubo e realtà.

Il film è una pura nottata insonne infantile, in cui il tempo si dilata e si restringe, i silenzi lasciano spazio a piccoli rumori che diventano assordanti, in cui “non muoversi” diventa quasi una strategia per ridurre al minimo le possibilità orrorifiche, ma allo stesso tempo una condizione di dipendenza o una fascinazione dell’ignoto. Una specie di stato primordiale del terrore.

Il fenomeno lo si può spiegare in tanti modi, ma forse quello più evidente lo si può notare passando dalle estetiche di internet. Probabilmente non è neanche un caso che una studiosa di questa materia come Valentina Tanni, nel suo recentissimo libro Exit reality, abbia mappato tutta una serie di riferimenti culturali che in gran parte emergono in questo film (e non è neanche un caso che, in un brevissimo passaggio, proprio Skinamarink venga preso brevemente come esempio dall’autrice).

Nel libro si parla di “stati ipnagogici” (di transizione dalla veglia al sonno), della centralità dell’elemento percettivo (uso della tecnologia a fini “sensoriali”), di weirdcore, di fughe dal reale, dell’infanzia come luogo del trauma (e come condizione iper-ricettiva), come memoria liminale, che abita un territorio di mezzo tra il senso di solitudine, lo sfasamento temporale e la nostalgia.

Ma soprattutto non si possono non citare le backrooms e i liminal spaces: due concetti spaziali iconografici chiave del contemporaneo folklore horror digitale. Sono corridoi, sale d’attesa e tanti altri (non-)luoghi quotidiani, spesso riferiti a un recente periodo passato, irrimediabilmente vuoti. Da un lato l’atmosfera chiama desolazione e inquietudine, dall’altra una non ben chiara nostalgia. Usando Fisher, Tanni parla di “fallimento di presenza” quando questi luoghi normalmente affollati appaiono vuoti. Ma ancora più chiare sono le domande che pongono. E sono le stesse che ci vengono poste da un film che fa diventare una casa sempre più uno spazio liminale. Dove sono andati tutti? Cosa sta succedendo? Ma, soprattutto, alla luce del tono che invade tutte le immagini, cosa sta per succedere?

Come suggerivamo prima, il punto di vista del film, per quanto visualmente determinato (telecamere a infrarossi), non è diegetico e si pone più come un’essenza onirico-tecnologica. L’immagine è contemporaneamente digitale e analogica – girata in digitale, ma stampata in pellicola – e ribalta così la logica del found footage creando un effetto di sfasamento genealogico-temporale, un glitch in cui il buio a infrarossi – quasi verde, bluastro – è impercettibile e indistinguibile. Non è il nero netto del digitale, ma la traccia di un nulla che ci chiama a trovare qualcosa nelle impercettibili macchie dell’immagine materiale.

Skinamarink prende la fissità dello slow cinema – insieme al suo radicale lavoro con lo spettatore, con le sue aspettative e le sue pretese – e la porta all’horror. La contemplazione si fa attesa angosciosa di qualcosa che non arriva. Perché Skinamarink è un film sulla scomparsa. E questa avviene cinematograficamente, per montaggio, oppure è la stessa grana dell’immagine a mangiarsi i personaggi nel film. Qualcosa non c’è più, il passato ormai è perduto, l’infanzia deserta, i luoghi non più abitati. You can easily return to the past, but no one is there anymore.

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