Straw - Senza uscita: il giorno in cui tutto crolla (e nessuno ti ascolta)
La storia del cinema è piena di film di rapina. Alcuni entrano nella leggenda, altri restano intrappolati nella banca che provano a raccontare. Tra i primi, cito a memoria Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet, classe 1975, e Inside Man di Spike Lee (2006), due modelli diversi ma complementari di come si può tenere lo spettatore incollato alla sedia con una location limitata e un conflitto bruciante. Anche La casa di carta, sul versante seriale, ha fatto scuola nel trasformare l’assedio in danza coreografica tra dentro e fuori, legalità e devianza.
"Straw – Senza uscita", diretto da Tyler Perry e disponibile su Netflix, si inserisce in questo filone con l’ambizione di raccontare una storia di tensione e disperazione tutta al femminile. Ma, pur rispettandone la struttura e i codici, non riesce a stare al passo coi suoi predecessori. Anzi, sembra arrancare fin dalle prime battute, vittima non tanto delle sue intenzioni quanto della maniera in cui decide di metterle in scena.
La protagonista è Janiyah, una donna afroamericana interpretata da una intensa Taraji P. Henson, che vive nel precariato più totale. In un solo giorno perde tutto: casa, lavoro, figlia. E, come se non bastasse, viene anche urtata volontariamente da un poliziotto fuori servizio. Non c’è respiro, non c’è tregua. Un accumulo di ingiustizie che ha il sapore della trappola sociale, quella in cui cadono le persone invisibili, le vite che non fanno rumore se non quando esplodono.
Ed è proprio questa esplosione che innesca il cuore del film: un gesto disperato, una rapina non voluta ma inevitabile, un’escalation in tempo reale tra ostaggi, SWAT e cronaca in diretta. In mezzo, una donna che non ha più nulla da perdere.
Eppure, nonostante un potenziale umano altissimo e un’attrice che regge benissimo ogni singola inquadratura, Straw – Senza uscita fallisce nel creare vera empatia. Il problema non è la storia – attualissima, e per certi versi anche necessaria – ma il modo in cui viene raccontata: tutto è troppo esplicito, troppo guidato, troppo privo di sfumature. Il rapporto tra la protagonista e l’esterno, tra lei e i poliziotti, tra lei e gli altri ostaggi, è costruito con una prevedibilità che scivola nella retorica.
Il film vorrebbe essere un pugno nello stomaco, e a tratti lo è. Ma manca quel respiro tragico, quella complessità psicologica che trasformava Al Pacino in Sonny nel film di Lumet, o Clive Owen in protagonista enigmatico in quello di Spike Lee. Qui il percorso è tracciato, quasi didascalico, e questo finisce per togliere forza anche ai momenti più tesi.
"Straw" è un titolo che richiama l’espressione “the last straw”, l’ultima goccia che fa traboccare il vaso. E in effetti è questo che vediamo: un crollo emotivo e sociale provocato non da un singolo evento, ma da un sistema che fallisce in ogni punto – assistenza sociale, sanità, giustizia, umanità. E questa è forse la riflessione più potente che il film offre, anche suo malgrado.
In conclusione, Straw – Senza uscita è un film che avrebbe potuto gridare forte, ma si accontenta di parlare chiaro. Non basta per restare, ma abbastanza per farci riflettere. E magari chiederci, senza troppe certezze, cosa avremmo fatto noi, in quel giorno che sembra un inferno – ma è solo l’altra faccia del quotidiano di molti.