The Regime: scellerata e grottesca confusione

 
 

Una serie ideata da Will Tracy per HBO dopo il clamoroso esito di Succession sembrava poter essere una conferma, un ritorno alle produzioni ciniche e corrosive che inchiodano lo spettatore allo schermo; oltre alla garanzia del nome si aggiungevano l’argomento politico e satirico e una protagonista coi fiocchi, Kate Winslet, e invece The Regime – Il palazzo del potere, andata in onda su Sky e NOW, non ha convinto, anzi ha creato una gran confusione  nello sguardo e nelle riflessioni a posteriori del pubblico.

In un immaginario stato dell’Europa centrale governa il regime autocratico della Cancelliera Elena Vernham (Kate Winslet), una leader ambiziosa e determinata, cangiante nei suoi sbalzi d’umore, ipocondriaca e incline alle fascinazioni manipolatorie di chi ha storie gloriose da proporre. Ad affiancarla in una nuova fase del suo governo entra in scena il caporale Herbert Zubak (Matthias Schoenaerts), anche detto Il Macellaio, determinato a convincere la Cancelliera a dedicarsi maggiormente a una politica isolazionista e di riforme agrarie che riportino il paese al suo antico splendore contadino. Nasce tra i due un gioco di continua inversione di ruoli per la detenzione del potere, politico e manipolatorio.

The Regime si mostra chiaramente, sin dal primo dei sei episodi, una vasta satira del contemporaneo che incede e cade maldestramente nel grottesco e nel paradossale, mescolando tra loro, seppur lasciandoli slegati, i punti critici dell’attuale assetto geopolitico mondiale. Si comincia con un virus che ristagna tra le pareti del palazzo, che per debellarlo è in restauro. Un virus da cui si deve proteggere la Cancelliera che necessita di qualcuno che controlli il tasso di umidità di ogni stanza, per poi spostarsi sulla crisi economica, sui rinviati accordi con i supponenti Stati Uniti e con la spregiudicata Cina, fino a giungere alla rivendicazione territoriale di una striscia di terra, strategica per poter conservare una propria autonomia economica. Elena deve dunque destreggiarsi tra continui cambi di rotta che le vengono consigliati da Zubak, o a cui lei giunge nel tentativo di ostacolare l’ascesa di quest’ultimo, pensando al proprio tornaconto mentre finge di mascherarlo da attenzione per il proprio popolo, al quale propina la retorica di una falsa democrazia basata su elezioni truccate. È evidente come la serie voglia analizzare e criticare il mondo e le scelte dei leader del nostro tempo attribuendole ad una donna che passa dall’essere medico a maestra di eleganza, a guerriera combattiva, confusa e fragile, piena di livore e con l’utopia della grandezza dal lieto fine dirompente. Sono troppe le sfaccettate personalità che incarna la cancelliera, e fortemente ingombranti, tanto da non lasciar spazio d’azione e evoluzione agli altri personaggi che appaiono inermi sullo sfondo, marionette mosse con il solo scopo di arricchire l’agire della protagonista, di darle modo di dialogare e non monologare tra sé e sé. Alcuni di essi, come il marito o l’oppositore politico (Hugh Grant) sono inseriti a forza in una trama che non concede o prevede spazio alcuno per loro, stipati e ridotti a macchiette inconcludenti.

Tutti i personaggi sono bloccati nella realtà distorta di un palazzo – non a caso il titolo iniziale del progetto era The Palace – che vive dei suoi intrighi, che separa dalla realtà creando barriere e incomunicabilità tra il dittatore e il suo popolo, raggiungibile dalla tecnologia di discorsi pre-registrati, ma non dal contatto umano che, nei pochi casi in cui si verifica, sprigiona veleno e disprezzo, sia che si tratti di ricchi imprenditori che di operai disoccupati. Gli spazi e le influenze cambiano in un edificio che, come la sua ospite, assume differenti posizioni:  si alternano atmosfere da The Crown e da etichetta di corte, rapporti sociali da ancien régime settecentesco, divise e sobrietà culturali e culinarie da comunismo sovietico, amplificando la strepitante e straripante moltitudine di riferimenti che affastellano la narrazione di una storia che pesca da ogni suggestione possibile senza scremare e selezionare. La vastità e varietà di modelli proposti crea una confusione fumosa che spiazza e destabilizza lo spettatore, impedendogli di comprendere e vedere il reale scopo della serie, che si trasforma in un mero gioco di maniera, di citazioni, una farsa grottesca fine a se stessa che abusa di ironia e humor nero fino ad annullarlo e renderlo incomprensibile.

Tra quelli che erano i presupposti iniziali, in apparenza intoccabili e saldi,  l’unico a sopravvivere al termine di The Regime è la certezza che il talento e la capacità di adattamento di Kate Winslet siano mirabili e pregevolissime. Nel caos di un continuo affastellarsi di idee, è lei a dettare le regole, con il rigore del suo sguardo che in pochi attimi cede alla nevrosi e si trasforma in insicurezza dando valore e consequenzialità ad ogni gesto e parola. Si fortifica, quindi, la convinzione che il personaggio di Elena Vernham, se sottratto alle strutture del suo palazzo e della sua storia, lasciato in prossimità di una semplicità rigorosa, sarebbe potuto giungere a un equilibrio narrativo capace di lanciare spunti di riflessioni potenti e incisivi, chiavi di lettura di un mondo che già di per sé, fuori dalla finzione, è una grande e inarrestabile farsa. 

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