La bestia nella giungla: Henry James to a disco beat

 
 

Henry James al ritmo di discoteca. Modificando leggermente una frase di “Left to my own devices” dei Pet Shop Boys, potremmo riassumere così l’ambizioso tentativo di Patric Chiha e dei suoi sceneggiatori Axelle Ropert and Jihane Chouaib di adattare “La bestia nella giungla” (1903), una delle più apprezzate novelle di Henry James che ha recentemente goduto di una rinnovata fortuna intermediale. Nell'omonimo film di Chiha, infatti, il rapporto tra John Marcher (Tom Mercier) e May Bartram (Anaïs Demoustier) si dispiega nel corso di più di vent’anni quasi unicamente all’interno di una discoteca parigina, gestita da un’eccentrica Fisionomista (Béatrice Dalle) che funge anche da narratrice. Pesantemente condizionato dalla ossessiva paura di John di un pericolo incombente, che, nelle parole di James, “lo attendeva, alle curve e agli incroci lungo il cammino dei mesi e degli anni, come una bestia feroce in agguato nella giungla”, il legame tra i due viene spostato dall’inizio alla fine del Novecento, ricollocandolo ai tempi della pandemia dell’AIDS e degli attacchi del terrorismo globalizzato e dando, in questo modo, una concreta materialità alle ansie intangibili di James. 

Tutta la produzione di James ha costantemente affascinato registi e sceneggiatori, anche se con esiti estremamente diseguali, in cui ambizioni autoriali coesistono con un barocchismo formale che rimane alla superficie della prosa jamesiana.  Da L’ereditiera (1949) di Wyler, Oscar per Olivia de Havilland, al bistrattato Daisy Miller (1974) di Bogdanovich, dalle produzioni Merchant-Ivory pre-Forster con Gli Europei (1979) e I Bostoniani (1984) al vero e proprio revival di fine millennio inaugurato da Ritratto di signora (1996) di Jane Campion e continuato con Washington Square – L’ereditiera (1997) di Agnieszka Holland, Le ali dell’amore (1997) di Softley e La coppa d’oro (2000) di Ivory per arrivare ai più recenti Quel che sapeva Maisie (2012) di McGhee e Siegel e The Aspern Papers (2018) di Landais, senza dimenticare, ovviamente, La camera verde (1978) di Truffaut. Scritta nella prosa complessa ed elegante di quella che il critico F. O. Matthiessen ha definito “la fase maggiore” del romanziere, “La bestia nella giungla” è risultata particolarmente intermediale nell’affascinare il nostro immaginario contemporaneo con il suo protagonista che capisce troppo tardi che la catastrofe che si attende per tutta la vita è proprio quella di non aver vissuto pienamente come avrebbe potuto, rifiutando il legame con May. Una paralisi sentimentale che ha anche ispirato una famosa lettura queer da parte di Eve Kosofsky Sedgwick nel suo pionieristico Epistemology of the Closet (1990), secondo cui la novella esprime il “panico omosessuale” nella scoperta della vera natura del desiderio di John. Saggio e racconto sono stati il punto di partenza anche per Colm Toibin che, nel suo romanzo The Master (2004), presenta James come un cultore dell’arte della prosa che non riesce, tuttavia, a vivere la propria sessualità, condannandosi all’infelicità e imprigionando nello stesso destino le donne e gli uomini che lo hanno amato. Il film di Chiha si colloca all’interno di questo rinnovato interesse per il racconto di James che ha prodotto anche un altro adattamento cinematografico quasi contemporaneo, La Bête (2023) di Bertrand Bonello, oltre al danese The Beast in the Jungle (2019) di Clara Van Gool e al brasiliano A Fera na Selva (2018). 

La discoteca, che, inizialmente, non ha nome e viene battezzata nel corso del film proprio “The Beast in the Jungle”, è il meccanismo che regista e sceneggiatori hanno scelto per rendere ancora una volta materiale la claustrofobia che aleggia in tutto il racconto di James, i cui protagonisti non sono, come nel film, fisicamente confinati in un edificio ma si muovono per i luoghi di Londra, come la National Gallery e il South Kensington Museum, salotti e ricevimenti, almeno fino alle sezioni conclusive. James insiste sulla trappola psicologica che rende John e May prigionieri di un rapporto che non può sfociare nella “vera forma che avrebbe dovuto assumere, dato l’ampio presupposto da cui scaturiva, . . . quella del loro matrimonio”. John è infatti paralizzato dalla paura per una catastrofe imminente e, confessando questo timore a May, imprigiona anche lei. Non era importante sapere se “la bestia in agguato fosse destinata a sbranarlo o ad essere abbattuta. Il punto era che sarebbe inevitabilmente balzata fuori; e l’unica conclusione possibile era che un uomo d’onore non poteva permettere che una signora l’accompagnasse durante una caccia alla tigre”. 

La discoteca de La bestia della giungla è un significante ambiguo: al tempo stesso, uno spazio sicuro e queer, che celebra il movimento e il desiderio dei corpi (già al centro del documentario di Chiha Si c’était l’amour, 2020), ma anche correlativo oggettivo dell’impossibilità dei personaggi di avanzare e dell’essere prigionieri di un destino segnato. In una delle poche sequenze girate fuori dal locale, May e John vogliono unirsi ai festeggiamenti per l’elezione di Mitterand, ma scoprono di aver camminato in circolo e di essere tornati al punto di partenza. Il locale segna, così, un’impasse non solo sentimentale ma anche politico, rafforzato dall’inevitabile ed incontrastato avvento dell'AIDS, annunciato prima implicitamente dalla morte del cantante Klaus Nomi, poi dichiarato esplicitamente dalla Fisionomista: “L’AIDS mieteva vittime. Il mondo di John e May era intriso di morte . . . Al club aspettavamo una nuova generazione”. La Storia penetra nel locale attraverso i media senza, tuttavia, che chi lo frequenta riesca ad avere un ruolo significativo in quegli eventi: la pandemia dell’AIDS e l’elezione di Mitterand, come abbiamo già detto, a cui si aggiungono la caduta del Muro di Berlino e l’11 settembre. Pur nella loro tragicità, questi eventi storici non riescono a smuovere John dal suo egotismo, né May dalla sua contemplazione per John: la stessa morte per AIDS degli amici non riesce a spostare l’attenzione della donna, come pure il suo matrimonio a Pierre, un’aggiunta, rispetto alla novella di James, non completamente convincente. La chiusura della discoteca agli adulti, insieme con il tragico destino di May, forzerà John a confrontarsi con il suo costante fuggire dalla vita.

La scelta di ambientare quasi tutto il film all’interno di una discoteca è efficace: una decisione provocatoria ma, al tempo stesso, completamente jamesiana che catapulta il fedele lettore in un mondo così radicalmente diverso da quello che si aspetta, proprio come succede agli eroi ed eroine dello scrittore, da Isabel Archer in Ritratto di signora (1881) a Lambert Strether de Gli Ambasciatori (1903). Una maggiore concisione avrebbe, tuttavia, giovato al film. Alla lunga, infatti, l’atmosfera rischia di diventare più lugubre che perturbante, complice anche un’eccessiva sottolineatura del ritmo ipnotico delle scene sul dancefloor che, talvolta, fa rassomigliare il film ad un lungo spot pubblicitario o ad un video musicale. La stessa coppia di attori protagonisti fatica a tenere tutto il peso del film, con la recitazione di Tom Mercier al limite voluto dell’inespressività nel suo tendere al catatonico e la vitalità di Anaïs Demoustier troppo improvvisamente trasformata in sofferenza. Béatrice Dalle prova a dare una declinazione ironica al suo funereo personaggio, ma non è sempre sostenuta dalle battute e da una bizzarra scelta di costumi. La bestia di James continua ad aggirarsi per la giungla degli adattamenti cinematografici. 

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